Due storielle per riflettere e giocare

I SEI CIECHI E L’ELEFANTE

C’era una volta un villaggio i cui abitanti erano tutti ciechi. Un giorno un principe straniero, che viaggiava sopra un elefante, si fermò davanti alle mura di questo villaggio, per una sosta durante il suo tragitto. Tra gli abitanti si diffuse la voce della presenza del principe e di un animale straordinario, che essi non conoscevano. Così i cittadini decisero di inviare sei persone ad accogliere il principe e a toccare l’elefante, così che poi avrebbero potuto descriverlo a tutti gli altri. Al loro ritorno, i sei ciechi furono accolti con impazienza e curiosità. Il primo disse che un elefante è come un enorme ventaglio rugoso. Aveva toccato le orecchie. – Assolutamente no, – intervenne il secondo – perché è come un paio di lunghe ossa. Egli aveva toccato le zanne. – Ma proprio per niente! – esclamò il terzo – Un elefante assomiglia ad un grosso tubo. Aveva toccato la proboscide. – Ma cosa state dicendo? Piuttosto è compatto come un tronco d’albero! – replicò il quarto cieco, che aveva toccato le zampe dell’elefante. – Non capisco di cosa state parlando… – gridò il quinto cieco – … l’animale assomiglia ad un muro che respira. Questi gli aveva gli toccato i fianchi. Il sesto sentenziò fermamente – Non è vero nulla di tutto questo: un elefante è come una lunga e robusta fune. Aveva toccato la coda. Così i sei ciechi iniziarono a litigare, presi tutti dall’affermare ciò che avevano toccato. Attirato dalle urla, il principe rimase in ascolto e, comprendendo che quella situazione era destinata a ripetersi all’infinito, prese la parola e sussurrò … – Tutti dicono una verità. Ognuno sa cosa ha sentito ed è sicuro di ciò che ha toccato con mano. Ma l’esperienza fatta è solo una parte della verità e solo “ascoltandosi” ognuno può andare oltre, comprendere la verità che cerca –

 

IL SIGNIFICATO DELLA VITA

(B. Ferrero, da Solo il vento lo sa, 1995) Un professore concluse la sua lezione con le parole di rito: “Ci sono domande?”. Uno studente gli chiese: “Professore, qual è il significato della vita?”. Qualcuno, tra i presenti che si apprestavano a uscire, rise. Il professore guardò a lungo lo studente, chiedendo con lo sguardo se era una domanda seria. Comprese che lo era. “Le risponderò” gli disse. Estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori uno specchietto rotondo, non più grande di una moneta. Poi disse: “Ero bambino durante la guerra. Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi. Ne conservai il frammento più grande. Eccolo. Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai: buche profonde, crepacci, ripostigli. Conservai il piccolo specchio. Diventando uomo finii per capire che non era soltanto il gioco di un bambino, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita. Anch’io sono il frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza, la bontà, la tenerezza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo per me sta il significato della vita”