Relazione

La fraternità delle origini come modello di riferimento per la Chiesa di oggi

 Come prima cosa, oltre a ringraziare Sua Eccellenza Mons. Domenico Sorrentino per l’invito a parlare alla vostra assemblea, vorrei osservare che il tema che mi è stato affidato, e che viene trattato anche dall’Arcivescovo nella sua lettera pastorale, è di grande attualità.

Proprio pochi giorni fa, in occasione di un corso di aggiornamento per i docenti di Sacra Scrittura organizzato dall’ABI, don Romano Penna ha tenuto una relazione sulla casa come spazio della Chiesa («Prime chiese e liminalità: la casa come spazio dell’ekklesía», Montesilvano, 8-10 settembre 2022): insomma, siamo di fronte a una questione che interpella non solo l’aspetto pastorale, ma che è oggetto di studi importanti.

Vorrei ora iniziare a presentare i due punti di vista dai quali intendo affrontare il tema: 1) in primo luogo da una prospettiva biblica e storica; 2) secondariamente, attraverso un’applicazione esegetica, mostrando concretamente quello che cercherò di dire con un breve commento di due testi degli Atti degli Apostoli.

Prima però, una premessa necessaria, che ci permette di entrare già dentro la questione.

Premessa: stare tra le macerie

La premessa si basa sugli Orientamenti scritti da Mons. Sorrentino per l’anno pastorale 2022- 2023 per le vostre diocesi, Veni, Sancte Spiritus. Scrive il vostro Arcivescovo:

il cristianesimo nacque nelle case. Le parrocchie vennero dopo, a servizio delle case cristiane. Oggi le case sono investite da un vero terremoto spirituale che ha scosso il fondamento stesso, ossia il matrimonio e la vita, producendo case sempre più vuote di fede e di nascite, ricche di solitudine, invase, attraverso i “media”, da una cultura che, senza voler indulgere al catastrofismo (non mancano i filoni del bene!), è però nell’insieme una cultura ormai sempre più lontana dal vangelo quando non apertamente ad esso ostile. Questa situazione è diventata aria che si respira.

In questa analisi si trovano alcune affermazioni importanti. Una di queste riguarda la “situazione terremotata” delle nostre case.

Un monaco trappista, André Louf, in un prezioso libro del 2000, Sotto la guida dello Spirito (Qiqajon 1990), scriveva proprio di terremoti. Se Assisi, purtroppo, e Foligno, hanno sperimentato cosa significhi un vero terremoto che crea danni importanti, se Mons. Sorrentino applica questa metafora alle famiglie del nostro tempo, André Louf la vede, invece, in riferimento alla vita spirituale e interiore, per descrivere la necessità della conversione. In fondo, si potrebbe dire, tutto ritorna lì: i terremoti veri, e quelli nelle nostre case, ci interpellano nel nostro profondo. Scriveva padre Louf:

È molto più confortevole vivere da peccatore o da giusto incallito che da peccatore in conversione. Eppure la grazia ci spinge giorno dopo giorno proprio a questo rovesciamento interiore: Dio viene a toccarci in infiniti modi per renderci docili a questo stato di conversione; da parte nostra possiamo solo prepararci a essere toccati da Dio. Dovranno accadere molte cose, assolutamente al di fuori della nostra buona volontà e della nostra generosità naturale. Questo rovesciamento non implica una semplice ferita interiore, ma una vera e propria lacerazione che colpisce le nostre fondamenta; implica una probabile rottura e dei frantumi, uno sgretolamento inarrestabile: come un edificio in cemento armato, al quale possiamo aver lavorato per anni con estrema cura e che, a un certo punto, si è messo a funzionare solo come uno scudo contro il nostro io più profondo e contro gli altri, finendo col rischiare di proteggerci anche contro la grazia di Dio. Questo crollo è solo un inizio, ma è già gravido di speranza: bisognerà evitare soprattutto il tentativo di ricostruire ciò che la grazia ha demolito. Anche questo non è facile da imparare: la tentazione di montare qualche impalcatura davanti alla facciata pericolante e di rimettersi all’opera è infatti sempre molto grande. Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre rovine, a sederci in mezzo ai detriti senza amarezza, senza rimproverare noi stessi né accusare Dio. Dovremo appoggiarci a questi muri in rovina, pieni di speranza e di abbandono, con la fiducia del bambino che sogna che suo padre aggiusterà tutto; perché lui, il padre, sa come tutto può essere ricostruito diversamente, molto meglio di prima.

Proprio per il fatto che ci troviamo in una situazione “post-sismica” si può comprendere l’insistenza che nelle indicazioni pastorali si pone a riguardo della preghiera: «la missione comincia dalla preghiera», ribadisce Mons. Sorrentino negli Orientamenti, come vi ha già comunicato in altre occasioni.

È la preghiera di un figlio, direbbe André Louf, che stando tra le macerie di quella casa sa che il Padre si prenderà cura di lui, e della casa stessa. Non è forse accaduto così per il popolo di Israele? A seguito della tragedia nazionale della distruzione di Gerusalemme nel VI sec. a.C., e della deportazione a Babilonia, proprio mentre non si vedeva una prospettiva futura, i profeti Ezechiele e Zaccaria hanno annunciato il soccorso che sarebbe venuto da Dio: il Signore avrebbe aiutato i suoi figli, grazie all’editto di Ciro, e poi all’intraprendenza di Esdra e Neemia, che avrebbero ricostruito Gerusalemme.

Certamente, un terremoto è un terremoto, la devastazione di una città è una vera tragedia, e nulla potrà essere come prima, e infatti la casa che il Padre vuole ricostruire – scriveva Louf – non è più la stessa casa, anche se si trova allo stesso posto. Non sarà più la casa di prima, che la grazia ha demolito.

Riflessione biblica e storica

E ora, una breve riflessione biblica e storica. Cosa può dire la comunità cristiana delle origini alla nostra chiesa piccola, frantumata, e a una società e a delle famiglie toccate da tanti “terremoti”?

  1. La piccolezza e la liminalità della chiesa delle origini. I cristiani delle comunità delle origini – che fossero nella chiesa di Gerusalemme, o nelle chiese paoline della diaspora, o nelle chiese giovannee – erano nella stessa nostra situazione, e per questo li possiamo sentire molto Sia per la loro condizione di piccolezza, sia per la situazione difficile di liminalità nella quale si trovavano.

Nel discorso tenuto da papa Francesco, durante il viaggio apostolico in Kazakhstan, ai Vescovi, sacerdoti, diaconi, consacrati e seminaristi e operatori pastorali, il 15 settembre 2022, il Pontefice, riferendosi probabilmente al fatto che i cattolici in quel paese sono poco più dell’1% della popolazione, mentre la sua superficie è nove volte quella dell’Italia, ha detto:

Davanti alle tante sfide della fede – specialmente quelle che riguardano la partecipazione delle giovani generazioni –, così come dinanzi ai problemi e alle fatiche della vita e guardando ai propri numeri, nella vastità di un Paese come questo, ci si potrebbe sentire “piccoli” e inadeguati. Eppure, se adottiamo lo sguardo speranzoso di Gesù, facciamo una  scoperta  sorprendente:  il  Vangelo dice  che essere piccoli, poveri in spirito, è una beatitudine, la prima beatitudine (cfr Mt 5,3), perché la piccolezza ci consegna umilmente alla potenza di Dio e ci porta a non fondare l’agire ecclesiale sulle nostre capacità. E questa è una grazia! Lo ripeto: c’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa piccola, un piccolo gregge; invece che esibire le nostre forze, i nostri numeri, le nostre strutture e ogni altra forma di rilevanza umana, ci lasciamo guidare dal Signore e ci poniamo con umiltà accanto alle persone. Ricchi di niente, poveri di tutto, camminiamo con semplicità, vicini alle sorelle e ai fratelli del nostro popolo, portando nelle situazioni della vita la gioia del Vangelo. Come lievito nella pasta e come il più piccolo dei semi gettato nella terra (cfr Mt 13,31-33), abitiamo le vicende liete e tristi della società in cui viviamo, per servirla dal di dentro.

Ecco: la chiesa piccola da cui partire, di cui parla Francesco, somiglia molto alla dimensione delle case delle comunità primitive, nelle quali è nata la Chiesa.

Romano Penna, sia nel suo prezioso volume La cena del Signore. Dimensione storica e ideale (San Paolo 2015), come nel suo recente contributo, già citato, sullo stesso tema, ha puntualizzato in modo alquanto chiaro che le chiese-famiglie delle origini erano davvero piccole di numero:

In concreto, per calcolare il numero dei componenti di una singola comunità, bisogna tenere conto del fatto che una casa antica, stando alle informazioni forniteci dall’archeologia (naturalmente si intende la casa di un benestante, a prescindere dalle insulae proletarie), disponeva in concreto come ambiente di raduno soltanto del triclinio. Questo spazio poteva contenere più o meno una dozzina di persone, eventualmente raddoppiabili […]. Se poi vi si aggiungeva per estensione anche lo spazio dell’atrio (dove peraltro si doveva stare in piedi), si poteva arrivare a un totale di una trentina-quarantina di persone («Prime chiese e liminalità»).

Non si tratta solo di una piccolezza dimensionale, però. La piccolezza veniva esperita anche in un altro senso, perché anche i cristiani della prima ora – come noi – si trovavano in una situazione liminale, di passaggio.

Sempre nel citato studio di Romano Penna si legge che «il limen/margine rappresenta una fase di transito e di sospensione, che relega l’individuo o un gruppo di individui ai margini della società nell’attesa del suo ingresso in uno status sociale nuovo» («Prime chiese e liminalità»).

Mi ha colpito molto l’interpretazione che ieri, proprio all’inizio dell’evento ad Assisi sull’Economy of Francesco, è stata fatta del versetto di Is 21,11 (che molti italiani conoscevano già per la canzone del 1983 di Francesco Guccini Shomér Ma Mi-Llailah?): «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La risposta, elusiva, dice una liminalità esistenziale:

«Viene il mattino, poi anche la notte» (Is 21,12). Cioè: giorno e notte, alba e tramonto, si susseguono. Non c’è un confine preciso tra notte e giorno, e nessuna delle due situazioni è permanente, e allora è difficile rispondere alla domanda (A. Mello, Isaia, San Paolo 2012).

Anche il passaggio epocale che stiamo affrontando può essere rappresentato come liminalità, quella causata dal passaggio da una cristianità – in Italia e in Europa – che non c’è più, a una che non c’è ancora, ma che già si intravvede. Papa Francesco ci ha abituati a questa lettura. Ricordiamo il Discorso in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana, il 21 dicembre 2019:

Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).

Ebbene, ogni cambiamento porta con sé una qualche crisi. Si pensi al libro neotestamentario che più di tutti descrive tale situazione, quello dell’Apocalisse, dove la crisi si manifesta a più livelli, tra i quali i principali sono quello ecclesiale (basta ricordare le differenze tra le sette chiese a cui si rivolge il Cristo: chiese attive, e chiese “tiepide”, ma tutte nella prova) e quello sociale (nello scontro tra il bene – col Vangelo – e le forze del male, esemplificato nell’Impero di Roma).

Ora, è ovviamente diversa la liminalità di cui parlava Romano Penna, quella cioè vissuta dai cristiani che, a seguito della morte e risurrezione di Gesù, e dei conflitti con il giudaismo del tempo, cercavano una nuova collocazione identitaria. Ma le fatiche di una chiesa che non riesce facilmente a trovare una sua collocazione ci consolano, e ci permettono di cogliere meglio la nostra situazione.

A conclusione di questo primo punto si può dire che il ragionamento che abbiamo svolto ci permette di rileggere la nostra situazione non tanto in senso consolatorio, quanto, soprattutto, in una prospettiva evangelica, considerando la piccolezza e la liminalità come beatitudini.

Però è necessario un caveat: piccolezza non deve voler dire insignificanza. Guai se questo ragionamento dovesse portarci a chiuderci in sacrestia, o a ritenere che il Vangelo non abbia nulla più nulla da dire al mondo. Piuttosto, questo ci porta ad arrenderci al fatto che sarà Dio a far crescere il seme come, quando, dove vorrà lui, anche senza la consapevolezza o, piuttosto, il “controllo” del padrone del campo, come si legge nella parabola di Gesù: il seme da lui gettato, «dorma o vegli, di notte o di giorno, germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,27).

Ed ora gli altri punti, che tratterò solo per accenni.

  1. Una rete necessaria. Tra questi “pochi” cristiani c’era una stretta rete di collegamenti e di fraternità. Ricordiamo che già alla metà del primo secolo dovevano esistere almeno queste chiese: la chiesa madre di Gerusalemme, le chiese di Samaria e di Galilea, la chiesa di Damasco, la chiesa di Antiochia di Siria, le chiese paoline, le chiese giovannee e la chiesa di Alcune di queste, come la chiesa di Gerusalemme, conservavano una matrice fortemente giudaica, mentre altre erano già il frutto della missione dell’Apostolo ai gentili.

Eppure, tra queste chiese, così diverse e così distanti geograficamente e per origine, doveva esserci una fitta rete di collegamenti. I missionari potevano spostarsi di chiesa in chiesa, portando con sé le lettere di Paolo o gli altri scritti cristiani, come si legge negli Atti degli Apostoli o in altri scritti del Nuovo Testamento. Insomma: si potrebbe dire che le relazioni andavano al di là delle proprie rispettive “parrocchie”, e si aprivano a esperienze ecclesiali distanti e differenti.

  1. La comunione: amicizia e fraternità. Se prendiamo in analisi una delle chiese di cui abbiamo più notizie, quella di Gerusalemme, leggendo gli Atti scopriamo che forte è la comunione che lì viene vissuta, e che si esprime nella preghiera – in particolare nella frazione del pane – e nella condivisione.

Rinaldo Fabris, in un prezioso volume intitolato Chiesa domestica. La Chiesa-famiglia nella dinamica della missione cristiana. Un profilo unitario a più voci (San Paolo 2009), si sofferma a definire la comunione che legava i credenti della Chiesa di Gerusalemme, e che cresce attraverso l’insegnamento degli apostoli, la messa in comune dei beni, la frazione del pane. Oltre che la frequentazione del tempio di Gerusalemme, che avrà luogo fino a quando non verrà distrutto, la prima comunità di Gerusalemme era contraddistinta – scrive Fabris – «dall’impegno costante e concorde nell’ascolto della parola degli apostoli e nella comunione che realizza l’ideale di amicizia e di fraternità».

Ho voluto citare espressamente questo estratto, perché il termine “comunione” potrebbe risultare addirittura troppo ecclesiale o troppo religioso, ma la sua declinazione nel binomio «amicizia e fraternità», invece, esprime qualcosa di positivamente laico e umano che permette una vera apertura. Il bisogno principale, oggi, dopo la pandemia e il chiudersi nelle proprie case – che lo si sappia o no

  • è quello di relazioni di amicizia e fraternità. Dobbiamo imparare dalle chiese delle origini, nelle quali non si entrava in una chiesa (non c’erano!) solo per frequentare una messa la domenica…, ma i cui membri invece dovevano avere relazioni strette. Certo, non mancavano i problemi e le tensioni anche tra quei pochi membri (basterà rileggere le lettere paoline alla chiesa di Corinto), ma non mancava nemmeno la

Ecco perché l’ultimo punto di questa riflessione non può che tornare alle chiese domestiche, da cui siamo partiti.

  1. Una chiesa sul modello familiare. La Chiesa delle origini è infatti fondata su un modello familiare e laicale. Non ho il tempo di approfondire questo tema (che voi già conoscete bene), e per il quale rimando di nuovo al volume citato sopra, che contiene un articolato studio di Mons. Erio Castellucci su La chiesa domestica dai padri al Vaticano II, e ricordo soltanto che è la dimensione familiare a dare la tonalità alla chiesa dei primi secoli, nella quale la comunità dei credenti è concepita come una “famiglia allargata”, dove addirittura i ministeri possono essere letti in questo

Mons. Castellucci, riferendosi all’ecclesiologia di Ignazio di Antiochia, scrive, ad esempio, che in quelle chiese «oltre al vescovo-pater familias, vi sono i presbiteri-figli, fratelli tra di loro, che lo aiutano nella conduzione della vita familiare, e i diaconi-servi, che portano avanti le attività pratiche e organizzano il lavoro di cui necessita la casa».

Naturalmente, la chiesa-famiglia, o le case-chiese, sono molto altro e molto di più, ma desideravo soltanto portare un esempio che ci spronasse a ragionare, anche a livello di ministeri, in termini familiari e – dicevamo sopra – di fraternità e amicizia.

Ma ora passiamo all’altro punto di vista, quello che prende l’avvio da due passi biblici.

Anania e Saffira vs. Aquila e Priscilla

Siamo infatti giunti alla breve disamina di due testi del libro degli Atti degli Apostoli. Anche in questo caso, per il primo brano che stiamo per leggere, quello di Anania e Saffira (At 5,1-11), serve una premessa.

  1. Il peccato originale della Chiesa. La pagina deve essere letta a partire dal suo genere letterario, come insegna il Concilio Vaticano II con la Dei Verbum (18 novembre 1965), 12:

Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.

Detto altrimenti, «avere coscienza della peculiarità dei generi è molto importante per il nostro accostarci alla Bibbia, proprio perché siamo tentati di livellare i suoi diversi modi di esprimersi. Questo vale soprattutto per le narrazioni, che si tende sempre a leggere come fossero cronache dei fatti, senza sapere poi come affrontare gli inevitabili problemi di storicità dei testi che non sono resoconti storici o lo sono in modo assai diverso dal nostro scrivere storia» (CEI, UCN, Incontro alla Bibbia. Breve introduzione alla Sacra Scrittura per il cammino catechistico degli adulti, LEV 1996).

Concretamente, «alcune volte si tratta di modi di esprimersi enfatici, come ad esempio per quanto riguarda lo sterminio dei nemici, più affermato che attuato, secondo la concezione antica, che Dio vuole una giustizia punitiva e immediata verso i peccatori» (ibid.).

Un commentatore del libro degli Atti, padre Gerard Rossé (Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Città Nuova 1998), spiega che il genere della pagina che stiamo per rileggere è quello del «giudizio di Dio», per il quale la punizione del peccatore avviene subito e in modo straordinario, al fine di superare in modo «immediato e decisivo un pericoloso attentato ai valori riconosciuti della comunità culturale da cui il testo proviene». Dello stesso parere Daniel Marguerat (Atti degli Apostoli, EDB 2011): «Inquietante, brutale, patetico. Questo racconto non lascia indifferente nessun lettore. La tragedia della fine di Anania, fulminato dalla parola di denuncia di Pietro e sbrigativamente sepolto, è raddoppiata dalla venuta di Saffira all’oscuro del dramma, dalla sua pubblica menzogna, poi dalla sua morte istantanea: questo racconto è fatto per impressionare. L’effetto che provoca si iscrive nello stesso testo: “E venne un grande timore su tutti coloro che ascoltavano” (At 5,5.11)».

Una caratteristica di questo genere è – continua Marguerat – «il ritratto in bianco e nero, vita e morte», dove «bene e male si contrappongono senza sfumature». Il genere «giudizio di Dio» è ben noto alla letteratura greco-romana antica ed è presente diverse volte nella Bibbia, quando si vuol dire che la questione tocca la vita e la morte: Sodoma e Gomorra (Gen 19,23-25); i figli di Aronne (Lv 10,1-5); la prima generazione degli israeliti nel deserto (N m 14,26); un profeta a Betel e i figli di Geroboamo (1Re 13-14); Giuda il traditore (A t 1,18); Erode Agrippa (At 12,20-23); la maledizione dell’albero di fichi (Mc 1 1,12-14.20-21); il castigo di Simone il mago (At 8,18-24); la punizione di Elimas (At 13,8-12).

Ed ecco il racconto di At 5,1-11:

1Un uomo di nome Anania, con sua moglie Saffìra, vendette un terreno 2e, tenuta per sé, d’accordo con la moglie, una parte del ricavato, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli

apostoli. 3Ma Pietro disse: «Anania, perché Satana ti ha riempito il cuore, cosicché hai mentito allo Spirito Santo e hai trattenuto una parte del ricavato del campo? 4Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e l’importo della vendita non era forse a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio». 5All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. Un grande timore si diffuse in tutti quelli che ascoltavano. 6Si alzarono allora i giovani, lo avvolsero, lo portarono fuori e lo seppellirono.

7Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò sua moglie, ignara dell’accaduto. 8Pietro le chiese: «Dimmi: è a questo prezzo che avete venduto il campo?». Ed ella rispose: «Sì, a questo prezzo». 9Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati per mettere alla prova lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta quelli che hanno seppellito tuo marito: porteranno via anche te». 10Ella all’istante cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta, la portarono fuori e la seppellirono accanto a suo marito. 11Un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in tutti quelli che venivano a sapere queste cose.

  1. Una sequenza sulla vita interna della comunità: At 4,32-5,11. Per comprendere la scena dobbiamo ricordare che il dramma di questa coppia è presentato nel seguente modo:
    • Atti 4,32-35 (sommario): la comunità di beni della chiesa delle origini: «Un cuore solo e un’anima sola»; «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune»; «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno»;
    • At 4,36-37: il modello, Barnaba: «Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Bàrnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli»;
    • At 5,1-11: il dramma di Anania e Saffira.

Dopo il sommario (il secondo dei tre che presentano la vita della Chiesa di Gerusalemme), con la descrizione della comunione dei beni dei credenti, a favore dei bisognosi, due scene concretizzano l’applicazione del principio della condivisione: a) quella di Barnaba che vende un campo e porta il ricavato agli Apostoli, come esempio positivo; b) l’esempio negativo di Anania e Saffira, che vendono una proprietà ma sottraggono dal ricavato, di nascosto, una parte.

Daniel Marguerat ha definito, in modo originale e molto acuto, questa pagina come «il peccato originale nella Chiesa». Vari tratti del racconto, infatti orientano la scena – che si trova all’inizio degli Atti degli Apostoli – verso un altro inizio: la storia della caduta in Genesi 3: il dramma di Anania e Saffira costituisce la prima crisi nella storia delle origini del cristianesimo; parallelamente, Gen 3 racconta la prima colpa verso il Creatore.

Il confronto con Gen 3 è suffragato da molti punti di contatto: il delitto di Anania e Saffira distrugge l’armonia originaria («un cuor solo e un’anima sola», At 4,32); si mente a Dio (Gen 3,1; A t 5,4b); soprattutto, l’origine della colpa viene collocata nel peccato di una coppia. In entrambi i casi, il racconto presenta uno stesso schema: la descrizione di una situazione idilliaca voluta da Dio (Geo 2,7-25; At 4,32-37); la trasgressione con la complicità della coppia (Gen 3,1-7; At 5,1-2); l’interrogatorio dell’uomo (Geo 3,8-12; At 5,3-4); l’interrogatorio della donna (Geo 3,13-16; A t 5,7- 9); l’estromissione dallo spazio sacro (Gen 3,23-24; At 5,5-6.10).

Scrive Marguerat: «Ormai il ritorno all’immagine “paradisiaca” di una comunità senza peccato è escluso. Il dramma di Anania e Saffira ha aperto la breccia, mostrando che il peccato originale nella Chiesa è un delitto di comunione; bisognerà ricordare che questo delitto è legato al denaro». Su questo punto i commenti sono superflui, e così possiamo arrivare a una conclusione.

  1. Investire nella famiglia e nei giovani che fuggono. Da questa utile analisi deduciamo una conseguenza. Se il peccato originale (“originale”) e quello originale della Chiesa si instaurano tutti e due in una relazione di coppia, allora si potrebbe dire che siamo di fronte a una situazione sensibile,

quella della famiglia: sulla pastorale familiare e della coppia si dovrà lavorare sempre di più, e da questa si deve ripartire.

È su questa pastorale che si deve investire, a tutti i livelli, perché la trasmissione della fede alle nuove generazioni riprenda l’avvio in famiglia. In un volumetto sui personaggi anonimi nei racconti della passione (Personaggi anonimi nei vangeli della passione, Ancora 2022) ho commentato il versetto del vangelo di Marco sulla fuga del giovane che scappa via nudo dal Getsemani («Seguiva però [Gesù] un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo»; Mc 14,51-52). Quel giovane può essere preso a simbolo, oggi, della fuga dei giovani dalla Chiesa. Nel Documento finale del Sinodo dei Vescovi sui Giovani, la Fede ed il Discernimento Vocazionale (27 ottobre 2018), si danno diverse ragioni di questa fuga. Leggo un paragrafo significativo:

Il Sinodo è consapevole che un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse, non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, poiché sentono la sua presenza come fastidiosa e perfino irritante. Tale richiesta spesso non nasce da un disprezzo acritico e impulsivo, ma affonda le radici anche in ragioni serie e rispettabili: gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea (n. 53).

Ma il primo Getsemani da cui fuggono i giovani non è la parrocchia: è la famiglia. L’abbandono della fede, si legge nel documento, ancor prima del paragrafo citato sopra, avviene già in casa, perché «talora gli adulti non cercano o non riescono a trasmettere i valori fondanti dell’esistenza oppure assumono stili giovanilistici, rovesciando il rapporto tra le generazioni» (n. 34). La responsabilità, insomma, viene ricondotta a chi non trasmette più la fede: ai genitori, alla famiglia. È su sulle famiglie – insisto – che si dovrà investire, sul modello delle comunità primitive,

dove la fede si comunicava non per proselitismo, ma “per attrazione” (cf. Evangelii gaudium 14).

  1. L’esempio opposto: Aquila e Priscilla. Arriviamo così al secondo quadro dal libro degli Atti, che mostra una situazione molto diversa, anzi, opposta, speculare a quella di Anania e Saffira: riguarda un’altra coppia, quella di Aquila e Priscilla. Diversi sono i riferimenti negli Atti a questi sposi, e ci limitiamo a quelli in cui compaiono nel libro la prima volta, al cap. 18, e poi, sempre in questo capitolo, quando aiutano Apollo:

1Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. 2Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro 3e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende. 4Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci (At 18,1-4).

24Arrivò a Èfeso un Giudeo, di nome Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, esperto nelle Scritture. 25Questi era stato istruito nella via del Signore e, con animo ispirato, parlava e insegnava con accuratezza ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. 26Egli cominciò a parlare con franchezza nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio (At 18,24-26).

Tre veloci annotazioni:

  • La missione di Aquila e Priscilla si deve al fatto che essi sono degli espatriati: cacciati da Roma dall’imperatore Claudio, insieme ad altri ebrei, sono degli emigrati cristiani che, involontariamente, si trovano a dover cercare una sistemazione attraverso la quale poi compiranno la loro missione (vanThanh Nguyen, «Migrant and Missionaries. The Case of Priscilla and Aquila», Mission Studies 30 [2013]);
  • la Chiesa-famiglia di Aquila e Priscilla – e, si può pensare, con essa anche le altre chiese- famiglie di cui si parla negli Atti – non nasce semplicemente attorno a Paolo, per sostenerlo, come una aggregazione di necessità: prova ne è che poi la coppia di sposi assumerà un ruolo importante, addirittura nella formazione di Apollo, formazione che altrimenti sarebbe rimasta incompleta, e a conoscenza solo del battesimo di Giovanni: la coppia Aquila-Priscilla permette a un missionario carismatico autonomo, Apollo, di entrare nella tradizione ecclesiale (G. Rossé, Atti degli Apostoli);
  • la professione stessa di Paolo, Aquila e Priscilla, è una forma di missione: tramite i contatti commerciali, le corporazioni a cui appartenevano, gli incontri, veniva annunciato il Vangelo. E Paolo non era l’unico missionario, quando predicava nelle sinagoghe: lo erano anche gli sposi, attraverso il loro matrimonio e il loro lavoro (Ronald Hock, The Social Context of Paul’s Ministry. Tentmaking and Apostleship, Fortress 1980).

Riassumendo, stare tra le macerie delle nostre case e delle nostre chiese diventate “piccole” ci offre delle opportunità per fare rete, comunione, ricostruire relazioni di amicizia che davamo per scontate, e soprattutto riprendere un modello di chiesa domestica che, ritengo, sia l’unico oggi che abbia un futuro. La liminalità in cui ci troviamo deve essere vista come una risorsa per affidarci a Dio, con la preghiera e la fiducia in un Padre che ricostruirà la casa. Allo stesso modo, la “piccolezza” che stiamo sperimentando e forse toccheremo sempre più con mano, è una beatitudine evangelica.

Infine, il cristianesimo è giunto a noi, ai “pagani”, grazie non solo a Paolo, ma a delle coppie di sposi, a famiglie: è sulla “chiesa nelle case” che si deve investire, sulla pastorale familiare e in aiuto alle coppie di sposi. Di fronte alla tentazione centripeta, di auto-centramento su di sé e sul privato – di cui si legge nel modello negativo di Anania e Saffira – la coppia di Aquila e Priscilla ci mostra un’apertura che ispira a dare fiducia ai laici e alle coppie. Solo così, tra l’altro, si potrà arrestare il movimento di fuga dei giovani, che non trovano più, in famiglia, le ragioni per credere in Gesù Cristo.

Ringraziandovi per l’attenzione, e sperando di aver adempiuto il compito che mi è stato affidato, auguro a tutti voi un buon inizio di anno pastorale.

Giulio Michelini giuliomichelini@gmail.com