Solennità di San Feliciano

24-01-2017
Solennità di San Feliciano 2017 – Primi Vespri
           
La fede e la devozione dei Folignati per San Feliciano si esprime in un gesto tanto semplice quanto commovente: nel bacio del piede della statua argentea. Il piede del nostro Patrono fa da argine al torrente in piena dei devoti che lo toccano con venerazione. In questo gesto sembra di sentire l’eco di un versetto del profeta Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace” (Is 52,7). Il capitolo 52 di Isaia, da cui è tratto questo versetto, inizia con l’invito rivolto a Gerusalemme perché si svegli, si scuota di dosso polvere e catene e indossi le vesti più belle, perché il Signore è venuto a liberare il suo popolo (vv. 1-3). E aggiunge: “Il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: ‘Eccomi!’” (v. 6). A questo Adsum detto da Dio, che esprime la sua volontà di salvezza, risponde il canto di gioia di Gerusalemme, che vive un momento storico molto importante: la fine dell’esilio di Babilonia. Il profeta, per esprimere la fedeltà di Dio al “piccolo resto” che ha perseverato nella notte oscura della fede, inserisce un canto di esultanza (cf. Is 52,7.9-10) che pone lo sguardo non sul messaggero ma sui suoi piedi che corrono veloci. Sembra di sentire il passo agile dello sposo del Cantico dei Cantici che raggiunge l’amata: “Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline” (Ct 2,8).
Fratelli carissimi, il bacio del piede della statua di San Feliciano, a cui nessuno di noi si sottrae, esprime tutta la nostra gratitudine per il Fondatore della nostra Chiesa particolare, che ha lasciato nella nostra terra le impronte della fede cristiana. Le tracce di queste orme sono impresse nella storia della nostra Diocesi, che con San Feliciano ha scritto uno dei primi capitoli del Martirologio. Il nostro Patrono appare non come eroe solitario, bensì come un uomo totalmente inserito nel suo popolo da condividerne la drammatica vulnerabilità, fino alla morte. Il più grande potere delle persone libere sta nel dare la vita per amore, senza farsela strappare da nessuno (cf. Gv 10,17-18), rendendo così evidente chi la tiene in piedi: Cristo Signore!
L’omaggio più sincero che San Feliciano attende da ciascuno di noi non è il bacio del piede, ma la rinnovata consapevolezza che fede cristiana e visibile unità ecclesiale sono due doni che non possono essere separati. È permanendo nell’autentica fede apostolica che è possibile rimanere saldi in quell’unità che è germe e profezia del mondo nuovo ed è, al tempo stesso, l’unità della Chiesa il luogo genetico della fede dei suoi figli e di quella testimonianza che converte i cuori e suscita la gioia di credere. Fede e unità ecclesiale sono infatti la terra buona in cui fiorisce la martyrìa!
Fratelli carissimi, la causa della debolezza della fede dipende dalla mancanza di unità: troppo facilmente attribuiamo all’ostilità del mondo ciò che è imputabile alla tiepidezza della nostra testimonianza. A che serve celebrare solennemente la festa del Patrono se non rendiamo evidente, attraverso l’unità, la roccia della nostra fede?

Solennità di San Feliciano 2017 – Messa Pontificale
 
Fratelli carissimi, l’anima del nostro popolo è così legata al suo santo Patrono, Feliciano, che basta esporre la statua argentea, perché tutti, come in devoto pellegrinaggio, accorrano a baciarne il piede. Quest’anno, a causa del flagello del terremoto, Feliciano ha trovato riparo nel Santuario della Madonna del Pianto. Più che versare nella condizione di sfollato, il nostro Patrono si trova nello stato di profugo, rifugiato sotto il manto della Vergine Maria. Questa circostanza mi suggerisce di proporre alcune riflessioni sulla questione migratoria che la Caritas diocesana affronta, in sinergia con le parrocchie e le istituzioni civili, con infaticabile dedizione. Molteplici sono le opinioni che un’emergenza così impegnativa solleva: paure, provocazioni, semplificazioni, alimentate da recenti atti terroristici, rischiano di annebbiare o disorientare una corretta lettura del fenomeno migratorio, che va sempre più assumendo le dimensioni di una drammatica questione mondiale.
Le migrazioni non sono un evento nuovo, ma appartengono alla storia dell’umanità. La situazione attuale richiama alla mente l’arrivo, dentro i confini dell’Europa romana, di popolazioni diverse che ne avrebbero mutato il disegno e il destino. In quel caso il fenomeno si è connotato come una vera e propria conquista militare oltre che politica e sociale; oggi si tratta di uno spostamento provocato non solo dalla ricerca di un lavoro dignitoso e di migliori condizioni di vita, ma anche e soprattutto dalla guerra che mette in fuga uomini e donne, anziani e bambini, costretti ad abbandonare le loro case con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace e sicurezza. La storia, maestra di vita, insegna che i grandi flussi migratori sono ineluttabili: cercare di regolamentarli è legittimo e anche necessario, ma volere impedirli innalzando muri e fili spinati è l’inizio della barbarie, soprattutto quando sono i bambini – “tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi” – a pagare il costo più gravoso, quello della separazione dagli affetti familiari.
Nella riflessione sulla questione migratoria c’è posto per tutti: per chi è preoccupato della sicurezza e per chi dell’accoglienza; per chi desidera preservare identità e tradizioni e per chi vede con favore l’incontro delle culture; per chi non vuole mettere in discussione diritti acquisiti e per chi sostiene l’esigenza di una riforma degli stili di vita. “Non bisogna mai dimenticare – avverte Papa Francesco – che i migranti, profughi e rifugiati, prima di essere numeri sono persone, volti, nomi, storie. Per grazia di Dio pulsa ancora il cuore di un’umanità che sa riconoscere prima di tutto il fratello e la sorella, un’umanità che vuole costruire ponti e rifugge dall’illusione di innalzare recinti per sentirsi più sicura. Per essere veramente solidali con chi è costretto a fuggire dalla propria terra, bisogna lavorare per rimuovere le cause di questa drammatica realtà: non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento, ma occorre sviluppare politiche di ampio respiro, non unilaterali. Prima di tutto è necessario costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte”.
La moltitudine immensa di persone coinvolte nel fenomeno migratorio ci impone di confrontarci sia con la questione dell’accoglienza, sia con il problema dell’integrazione. Il massiccio arrivo di stranieri ha bisogno di essere disciplinato e guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento: la “politica delle migrazioni” deve farsi promotrice di una “cultura delle migrazioni”. “Diversamente – avvertiva il card. Giacomo Biffi – non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l’insorgere di deplorevoli intolleranze razziali. Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione, che ha una sua storia, tradizioni vive e vitali, un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale. Compito primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l’annuncio del Vangelo e l’osservanza del comando dell’amore. Di fronte a un uomo in difficoltà – quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza – i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo nella misura delle loro concrete possibilità”.
A chi teme un’eccessiva “indulgenza cattolica” verso il fenomeno migratorio è doveroso ricordare che la storia cristiana è interculturale: da sempre vede in prima linea uomini e strutture della Chiesa impegnati a portare il Vangelo “fino agli estremi confini della terra”, promuovendo un efficace lavoro educativo che comincia sui banchi di scuola. È innegabile, infatti, che la sfida dell’integrazione passa nelle aule scolastiche, ove si impara a risolvere la contrapposizione tra identità e accoglienza e si educa a garantire la convivenza nella differenza. Non possiamo permettere che il rifiuto dello straniero si insinui nella formazione delle classi degli istituti scolastici, magari con la scusa di salvaguardare il livello degli studi.
Fratelli carissimi, i migranti hanno bisogno di noi, ma anche noi abbiamo necessità di loro in famiglia, negli ospedali, nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nel mondo del lavoro, nei sistemi pensionistici che divengono sempre meno sostenibili senza il loro contributo. Studi recenti mostrano l’impatto positivo del fenomeno migratorio sulla demografia e sull’economia. È lecito chiedersi: come stiamo accompagnando sul piano sociale, culturale ed ecclesiale questo evento di così vaste proporzioni? Con un semplice conteggio numerico? “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto” (Es 22,20). Fratelli carissimi, questo comandamento antico non ci colga in fallo nel giudizio finale: “Ero straniero e non mi avete accolto” (Mt 25,43). Il Signore ci chiederà se abbiamo fatto tutto il possibile per lenire la sofferenza di quanti hanno lasciato tre madri: quella che ha dato loro la vita, la madre patria e la madre lingua.
I migranti attendono di essere riconosciuti nella loro identità di “patrimonio dell’umanità”! San Feliciano ci aiuti non solo a dare loro una mano, ma a porgere loro la nostra destra: stringere la mano, guardandosi negli occhi, “è il ponte umano primordiale, il ponte antisismico più sicuro”.

Solennità di San Feliciano 2017 – Secondi Vespri
 
            Mi sono sempre chiesto quale sia la sorgente di questo torrente in piena di fedeli che, nella solennità di San Feliciano, inonda le strade della nostra città e si accalca attorno alla statua argentea del Patrono per toccarne il piede, limato dalle mani dei nostri padri e, forse, bagnato dalle nostre lacrime. Quale sarà stata la preghiera più accorata e più largamente condivisa che San Feliciano ci ha letto negli occhi al nostro passaggio? Senza dubbio avrà inteso il grido di chi ha perso il posto di lavoro e non sa come procurare il pane da portare a casa. Senz’altro avrà sentito il sospiro di tutti quei giovani che, dopo aver conseguito un titolo di studio, non vedono realizzarsi il sogno di formare una famiglia. È probabile che il nostro santo Patrono abbia percepito il lamento di chi il lavoro ce l’ha ma è trattato senza dignità, senza rispetto, senza giustizia. È possibile che San Feliciano abbia fatto sua l’ansia di chi lavora a tempo determinato, a intermittenza, o è pagato in nero. Sono sicuro che il nostro Patrono ha consolato, con l’abbraccio del suo sguardo benedicente, chi non è potuto venire a baciargli il piede, perché la ricerca di un posto di lavoro l’ha costretto a trasferirsi all’estero. 
Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia per tante famiglie, soprattutto per i giovani. È opportuno citare, al riguardo, un passaggio della prolusione tenuta dal card. Angelo Bagnasco, il 23 maggio 2011, all’Assemblea della CEI. “Vorremmo che niente rimanesse intentato per salvare e recuperare posti di lavoro. Vorremmo che si riabilitasse anche il lavoro manuale, contadino e artigiano. Vorremmo che gli adulti non trasmettessero ai figli atteggiamenti di sufficienza o disistima verso lavori dignitosi e tuttavia negletti o snobbati. Vorremmo che il denaro non fosse l’unica misura per giudicare un posto di lavoro. Vorremmo che i lavoratori non fossero lasciati soli e incerti rispetto ai cambiamenti necessari e alle ristrutturazioni in atto. Vorremmo che gli imprenditori si sentissero stimati e stimolati a garantire condizioni di sicurezza nell’ambiente di lavoro e a reinvestire nelle imprese i proventi delle loro attività (…). Vorremmo che il sindacato, libero mentalmente, fosse sempre più concentrato nella difesa sagace e concreta della dignità del lavoro e di chi lo compie, o non riesce ad averne. Vorremmo che le banche avvertissero come preminente la destinazione sociale della loro impresa e di quelle che ad esse si affidano. Vorremmo che scattasse da subito tra le diverse categorie un’alleanza esplicita per il lavoro che va non solo salvato, ma anche generato. Vorremmo che i giovani avvertissero che la comunità pensa a loro e in loro scorge fin d’ora il ponte praticabile per il futuro”.
San Feliciano, nostro amatissimo Patrono, toccando il tuo piede deponiamo con fiducia nelle tue “mani ligate”, ma benedicenti, l’indignazione e il coraggio tanto di chi cerca un impiego, quanto di coloro che impegnandosi a creare nuovi posti di lavoro non si rassegnano all’egemonia della finanza sull’economia: indignazione e coraggio sono le due ali della speranza!

+ Gualtiero Sigismondi