Messa Crismale 2016

23-03-2016
Messa crismale, 23 marzo 2016

 

Fratelli carissimi, la liturgia della Messa crismale ci fa incontrare Gesù nella sinagoga di Nazareth, ove Egli dà inizio alla sua missione. L’evangelista Luca sa creare una tensione, un’aspettativa, che si dipana come al rallentatore. Gesù si alza a leggere, gli viene dato il rotolo del profeta Isaia, lo apre e trova il passo dove è scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio (…), a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18.19). Poi riavvolge il rotolo, lo riconsegna all’inserviente e siede: “Nella sinagoga, gli occhi di tutti sono fissi su di lui” (Lc 4,20). Dopo un momento di silenzio, carico di attesa, seguono le prime parole di Gesù: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Grande è lo stupore di tutti i presenti ai quali Gesù, annunciando il compimento delle profezie, confida la sua predilezione per i poveri, i prigionieri, i ciechi, gli oppressi; non si tratta di un’opzione preferenziale, perché l’amore non fa preferenze ma predilige. Nelle fila dei prediletti il primo posto Gesù lo riserva ai peccatori! E tra questi noi, ministri ordinati, siamo sempre in prima fila, oltre che in prima linea! È la liturgia a ricordarcelo!
Mi ha sempre fatto pensare il fatto che, nella parte del Canone Romano in cui i sacerdoti pregano per se stessi, appare come loro definizione il termine “peccatori”: “Anche a noi, tuoi ministri, peccatori (nobis quoque peccatoribus), ma fiduciosi nella tua infinita misericordia, concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri”. Salendo all’Altare di Dio la liturgia pone sulle nostre labbra queste parole, che non dicono nulla della nostra dignità ministeriale, ma vanno al nocciolo essenziale della nostra identità di “ministri peccatori”. Si tratta di una definizione in cui si esprime la stessa coscienza che induce Isaia a gridare, davanti alla teofania: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” (Is 6,5). La stessa coscienza che, al largo del Lago di Tiberiade, fa dire a Simon Pietro, ancorato alle ginocchia di Gesù: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). 
Carissimi ministri ordinati, il Canone Romano oltre a farci dichiarare apertamente che siamo “peccatori fiduciosi nella divina misericordia”, ci fa chiedere a Dio umilmente: “Ammettici a godere della sorte beata (dei tuoi santi) non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono”. La liturgia eucaristica ci ricorda che siamo “ministri peccatori” anche nelle formule che ci fa dire sottovoce: prima di proclamare il Vangelo, dopo la presentazione delle offerte all’altare, alla frazione del Pane e durante la purificazione della patena e del calice. Non si tratta di formule rituali da ripetere in modo meccanico e sommesso – l’abitudine ottunde –, ma di espressioni confidenziali da proferire coram Deo più che coram populo! 
Se il Canone Romano ci fa riconoscere “a viso aperto” la nostra identità di “peccatori fiduciosi”, il prefazio della Messa crismale ci fa ammettere “a viva voce” di essere “servi premurosi del popolo di Dio”. Siamo “servi premurosi” non benché, ma perché “peccatori fiduciosi nella ricchezza del perdono di Dio”. Sebbene sia incolmabile la sproporzione tra la sublimità della missione che ci è affidata e la nostra fragilità umana, tuttavia il Signore ci ha giudicati degni di fiducia, mettendoci al suo servizio (cf. 1Tm 1,12). Egli ha versato il crisma della sua grazia, “in misura pigiata, scossa e traboccante”, nei vasi di creta della nostra vita, “affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,7). “Per grazia di Dio sono quello che sono”: questo è il biglietto da visita con cui san Paolo, riconoscendo che la grazia divina in lui non è stata vana, dichiara che ha faticato molto, non lui però, ma la grazia di Dio (cf. 1Cor 15,10). 
“Ringraziamo il Signore e domandiamogli perdono, perché si è degnato di permettere che la nostra miseria venisse a contatto con i suoi tesori di grazia”: così si esprimeva P. Leopoldo Mandic con un sacerdote suo penitente. La testimonianza di questo grande “ambasciatore di misericordia” (cf. 2Cor 5,20), che ha fatto del confessionale la sua cella, ricorda a noi, ministri ordinati, di non trascurare l’apostolato dell’ascolto. In quanto “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) siamo chiamati ad essere il “profumo di Cristo” dinanzi a Dio (cf. 2Cor 2,15), oltre che davanti al suo popolo. L’apostolo Paolo, consapevole di questa grave responsabilità, si chiede – e noi possiamo fare altrettanto –: “E chi è mai all’altezza di questi compiti?” (cf. 2Cor 2,16). 
Fratelli carissimi, noi siamo i “collaboratori della vostra gioia” (cf. 2Cor 1,24), ma voi aiutateci a commentare con il Magnificat le promesse sacerdotali, che rinnoviamo coram populo, confessando coram Deo: “Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”. Parafrasando una formula rituale, che risuona sulla soglia della Preghiera eucaristica, oso dirvi: “Pregate fratelli, perché il mio e vostro Magnificat sia gradito a Dio”. “Pregate fratelli”, perché il sacerdozio ministeriale si configura come servizio al sacerdozio battesimale. “Pregate fratelli”, perché il dono ricevuto in vostro favore con l’imposizione delle mani sia ravvivato dal “profumo di una vita santa”. “Pregate fratelli”, perché a voi non manchi mai la nostra paterna sollecitudine e a noi non venga meno la vostra docilità filiale. “Pregate fratelli”, perché il ministero ordinato non dipende dalle nostre qualità, pur necessarie, e neppure dalla nostra inguaribile indegnità: dipende unicamente dal Sacerdozio di Cristo, come da fonte, ed è posto sotto la singolare protezione di Maria. 
Fratelli carissimi, mi ha sempre colpito che Gesù morente, prima di affidare Maria a Giovanni, si preoccupa di consegnare Giovanni a Maria (cf. Gv 19,26-27). Il suo ultimo pensiero è rivolto anzitutto al “discepolo che Egli amava”, il quale rappresenta non solo l’umanità intera, ma anche tutti coloro che, nei secoli, con l’imposizione delle mani saranno costituiti pastori e consacrati “ambasciatori di misericordia”.
 
+ Gualtiero Sigismondi