Relazione finale della Diocesi di Foligno

INTRODUZIONE

Lo stile sinodale di una Chiesa di comunione e di partecipazione si è fatto strada nella vita della Diocesi grazie ad alcune esperienze che ne hanno segnato la storia degli ultimi anni: il Sinodo della Chiesa di Foligno (1986-1991) indetto dal Vescovo Giovanni Benedetti, il Sinodo dei Giovani (2004-2007) promosso dal Vescovo Arduino Bertoldo, l’episcopato di mons. Gualtiero Sigismondi (2008-2020). Questi viene ricordato come il “Vescovo della sinodalità” per averne fatto un modello di lavoro pastorale: sia a livello diocesano (Consiglio pastorale e Assemblee annuali; riordino degli Uffici diocesani in aree pastorali; preparazione condivisa delle relazioni per i Sinodi dei Vescovi sulla famiglia e sui giovani, per il Convegno ecclesiale di Firenze e per l’Assemblea regionale di Foligno), sia nelle parrocchie e nelle unità pastorali dove ha sempre sollecitato il buon funzionamento degli organismi di partecipazione. Il Vescovo Domenico Sorrentino, nella sua prima lettera pastorale dello scorso anno, ha riconosciuto il cammino sinodale già avviato e lo ha rilanciato verso nuove frontiere: il Vangelo, la famiglia, i giovani.

Questo spiega perché l’equipe sinodale (composta dai due referenti diocesani, entrambi laici, più cinque sacerdoti, un diacono permanente ed altri sette laici), partendo dalla domanda fondamentale del Documento Preparatorio n. 26, abbia proposto, per la fase diocesana dell’ascolto, una traccia che ha tenuto insieme sia le schede indicate dalla Segreteria del Sinodo sia la lettera pastorale del Vescovo Domenico. L’ascolto è stato sviluppato da tre soggetti, a ciascuno dei quali è stato affidato uno schema di lavoro sui nuclei tematici. Il primo ha rappresentato la dimensione diocesana (Consiglio Pastorale, Consiglio Presbiterale, Consulta delle Aggregazioni Laicali, Uffici diocesani); il secondo ha riportato le voci delle Unità pastorali e delle Parrocchie; il terzo è consistito nell’ascolto di alcuni ambienti di vita tramite persone e gruppi operanti sul territorio, anche realtà esterne alla Chiesa con cui raramente o difficilmente si dialoga. I risultati di tutti gli incontri sono stati raccolti in un dossier, dal quale emerge come dato significativo il coinvolgimento delle unità pastorali e delle parrocchie che hanno preso con impegno la fase di ascolto. Per la prima volta a livello diocesano, grazie ai verbali pervenuti, si possono conoscere in maniera documentata le analisi della situazione, le preoccupazioni e le prospettive di impegno della Chiesa locale viste “dal basso”.

 Nonostante il poco tempo a nostra disposizione e un clima di incertezza che la pandemia ha diffuso, i partecipanti hanno mostrato di avere a cuore la missione della Chiesa, condividendone il bisogno di conversione e l’urgenza di un rinnovamento pastorale più coraggioso e aperto al dialogo verso l’esterno per affrontare i tanti problemi che oggi sembrano più pungenti rispetto al passato. Gli stessi aspetti critici rilevati e le non poche lamentele fanno capire – accanto alla difficoltà nel comprendere il presente e nel vivere in un mondo diverso da quello in cui si è cresciuti – che il popolo di Dio, quando si mette in ascolto dello Spirito e delle attese del nostro tempo, intuisce le nuove vie di missionarietà che dovrebbero essere intraprese, anche se non sempre gli è chiaro il modo con cui procedere. Il valore della sinodalità sembrerebbe abbastanza acquisito sotto il profilo teologico, eppure la sua traduzione sul piano della vita ecclesiale concreta resta ancora incerta. Non mancano buone pratiche di sinodalità, ma non sono sempre patrimonio comune.

Anche quando si dice “Chiesa”, talvolta si pensa quasi esclusivamente al “clero”. Lo stesso laicato, che sottolinea le inadempienze e i ritardi della Chiesa in alcuni ambiti, non sempre rileva che è suo compito precipuo trattare le cose di questo mondo ordinandole secondo Dio. Troppe aspettative sono focalizzate sul clero e l’impegno dei laici finisce con l’essere rilevante soprattutto a livello intraecclesiale. Ne consegue che il nostro parlare di clericalismo manifesta troppo spesso il ritardo nella formazione e nella responsabilizzazione di un laicato ancora troppo attendista e poco protagonista.

Il processo di ascolto ha evidenziato problematiche e prospettive ricorrenti e condivise: 1) la fatica più sofferta sta nel confronto con gli esiti estremi della secolarizzazione, i quali, dopo l’indifferentismo religioso, toccano ora  gli ambiti dell’etica  e dell’antropologia, dove si è chiamati a “fare la verità nella carità” e dove le convergenze risultano tuttora incerte; 2) dalle difficoltà si esce insieme, con un atteggiamento di conversione permanente, capace di rinnovare i cuori e di riformare le strutture pastorali di una Chiesa che si riconosce nell’ordine dei segni e degli strumenti; 3) nelle realtà parrocchiali non mancano forze generose ed esperienze pastorali significative: si tratta di farle crescere in uno spirito missionario più fiducioso e collaborativo; 4) unanime è la richiesta di una Chiesa più capace di accoglienza delle persone, qualunque siano le loro scelte di vita; come pure l’esigenza di partire dall’ascolto e dalla interpretazione delle domande a cui l’annuncio del vangelo può rispondere.

Questa relazione, chiamata a rileggere l’esperienza sinodale e a discernere i contributi raccolti, ha cercato di evitare le doppie secche del pessimismo che blocca (lo scoraggiamento per la povertà dei frutti) e dell’ottimismo che assolve (la presa d’atto che la storia passata della Chiesa ha conosciuto ben altri periodi di crisi), nella consapevolezza – come ha scritto un sacerdote –  che “se guardiamo un campo di grano mettendo a fuoco solo la zizzania sarà questa a predominare”, mentre invece “dobbiamo imparare a guardare e a gioire  per il grano comunque presente”.

 DISCERNIMENTO DEI CONTRIBUTI RACCOLTI

  • In ascolto dei compagni di viaggio

La riflessione sulla sinodalità ha portato a condividere dei punti fermi. La Chiesa sinodale è una Chiesa che dialoga con gli uomini, interpreta i segni dei tempi alla luce della Parola e in ascolto dello Spirito. Il criterio di discernimento della sinodalità sta nel cercare le convergenze non la maggioranza. Il metodo perché si avviino l’ascolto e il dialogo esige una sorta di distacco dal proprio giudizio e dalla volontà di prevalere per confrontarsi con pensieri diversi e cercare insieme l’incontro delle posizioni.

Quando però si è proceduto alla verifica della sinodalità nella pratica pastorale, il camminare insieme è apparso claudicante per alcuni ostacoli: 1) una sorta di dualità, inaspettata e inedita rispetto al passato, fra chi “cammina con il papa” e chi “lo sottopone a giudizio”; 2) il prevalere dell’appartenenza a gruppi e movimenti (dove ciascuno ha la sua Chiesa) rispetto alla centralità della Chiesa locale attorno al vescovo; 3) un ritorno al tradizionalismo vissuto più come religiosità privata che come fede ecclesiale; 4) la debole presenza  di relazioni umanamente significative nelle stesse  comunità parrocchiali.

Due esigenze sono state spesso richiamate: confrontarsi sulle capacità e sulle modalità di irradiazione di una Chiesa in uscita per raggiungere un mondo sempre più secolarizzato; pensare una Chiesa che non cresce per proselitismo ma per seminagione e per capacità di sperimentare nuove forme di evangelizzazione. Poi però ciascuno mantiene davanti a sé il proprio percorso formativo già collaudato e la proposta del Vescovo Domenico di “portare la Chiesa nelle case” attende ancora il coraggio di una prima sperimentazione.

L’ascolto dei compagni di viaggio è stato verificato sia rispetto a coloro che camminano sulle nostre strade (in passato si sarebbe detto: i vicini) sia a coloro che percorrono strade parallele, divergenti o addirittura contrastanti (un tempo: i diversi e i lontani). Pare di capire che la Chiesa locale sia in “debito di ascolto” non solo con i secondi, ma spesso anche con i primi. Per cui ci si chiede come noi, impreparati ad uno ascolto autentico e ad un confronto aperto all’interno delle nostre comunità, possiamo poi risultare capaci di dialogare con quanti, giovani e adulti, difficilmente frequentano le nostre parrocchie e hanno riserve sulla fede creduta o manifestata dai credenti.

È stato posto anche il problema di come la Chiesa ascolti o meno il contesto culturale e sociale. A tale proposito è stata richiamata la necessità di una fede incarnata che parta dall’assunzione della realtà così come essa è, guardandola e ascoltandola con empatia, certi che il mondo è stato creato da Dio e pertanto è tempio suo non del maligno. Da qui il richiamo ad essere pazienti coltivatori di bene, in grado di individuare i semi di Vangelo sparsi a piene mani dal Creatore, per farli crescere e fruttificare.

Da questa chiave interpretativa si sviluppano però letture diverse sull’operato dei credenti. Da una parte, si parla di Chiesa giudicante, di esperti cacciatori di male da individuare ed estirpare, di ricerca di soluzioni dottrinali che permettano di individuare in modo definitivo chi è dentro e chi è fuori – chiari i riferimenti ai temi sensibili che toccano il dibattito etico e politico – anziché assumere l’atteggiamento del silenzio e della vicinanza rispetto alle situazioni di sofferenza profonda. Dall’altra, emerge la convinzione che la fede non va nascosta né resa evanescente di fronte alle domande di senso che suscitano i drammi della vita personale e della storia collettiva; va piuttosto testimoniata, col farsi fratelli che camminano insieme, perché dialogo equivale a uscire per curare – guarire è possibile solo a Dio! – le sofferenze della società.  Evangelizzare non significa allora gridare al mondo la verità, ma accompagnare qualsiasi persona a vedere il bene, quale segno efficace dell’amore di Dio e a promuoverlo nella storia con impegno.

Di fronte a queste nuove esigenze, che chiedono alla Chiesa di uscire da atteggiamenti pastorali resi obsoleti e inadeguati dai cambiamenti culturali sopra accennati, sono state rilevate le difficoltà a comprendere la portata dei problemi – peraltro visti spesso come un ostacolo anziché una opportunità – e a trovare un linguaggio capace di farsi comprendere, per esempio, dagli stranieri, dai poveri, dai giovani, dal mondo del lavoro, dalle tante forme di sofferenza. È stato osservato che gli sforzi delle parrocchie sono orientati ad una pastorale di mantenimento, per questo le stesse vengono sollecitate ad abbandonare i pregiudizi che ostacolano l’incontro con chi percorre strade diverse e ad essere più audaci nelle proposte verso chi si sente lontano dalla Chiesa e da Cristo.  Se chi è fuori non ci vede buttare via i pregiudizi nei confronti dei fratelli che condividono cammini esistenziali diversi, difficilmente, questi, sarà spinto a chiederci di camminare insieme. Se poi i pregiudizi riguardano gli stessi cammini interni alla Chiesa, allora è ancor più difficile sperare che quanti ci osservano dal di fuori possano ritenere credibile il nostro desiderio di camminare insieme.

Per quanto riguarda i nostri debiti di ascolto, dall’esterno ci viene fatto notare come, oltre il nascere e il morire, la Chiesa debba prestare analoga attenzione alle altre difficoltà e sofferenze che la vita incontra: disoccupazione, nuove povertà, disuguaglianze che emergono nel lavoro, nell’istruzione, nei consumi, nell’accesso ai servizi sociali, e così via. Sono tematiche, queste, sulle quali non mancano i richiami del magistero e nemmeno, a livello locale, diverse iniziative concrete e riconosciute come valide da chi ci osserva, come poi si dirà; e tuttavia pare di capire che si attendono anche altre strategie di presenza e di servizio dei credenti attraverso percorsi condivisibili anche con i soggetti operanti nelle istituzioni territoriali. Questi ultimi desidererebbero ancora di più da una Chiesa in uscita: i luoghi della fragilità e della cura, ad esempio, segnalano la funzione dell’accoglienza e del sostegno, oltre a quella assistenziale già in atto; i luoghi della cultura auspicano un ruolo critico nella lettura del nostro tempo per illuminarne gli eventi e sostenere la vita comune; i luoghi della formazione raccomandano l’accompagnamento delle giovani generazioni a maturare scelte e ad assumerne le responsabilità.

Ci sono poi nuove invocazioni di ascolto che emergono dalla stessa comunità cristiana. Appare evidente, ad esempio, la fatica di chi vive una sessualità non riconducibile alla dualità maschio e femmina, e il timore di non vedersi cercati, accettati e pienamente accolti; quasi che non si sentano – per dirla con le loro parole – “in diritto di avere una fede”. Sono voci di giovani, già presenti e impegnati nelle comunità cristiane, che percepiscono un atteggiamento giudicante nei loro confronti, ma che desiderano continuare a camminare anziché nascondersi. Temono che, palesando la loro identità, si crei una situazione di imbarazzo tale da costringerli ad allontanarsi.

Sul tema dell’ascolto si sono confrontate molto anche le parrocchie, consapevoli delle difficoltà che si hanno nel realizzare un ascolto autentico, capace di intercettare i vissuti delle persone, le loro fragilità, i momenti di gioia, le fatiche e la stanchezza.  Risulta anche difficile vivere un ascolto capace di recuperare la dimensione affettiva e familiare anche all’interno delle comunità cristiane, forse a causa di un vissuto di fede più individuale che comunitario. Giovani e famiglie appaiono come le realtà verso le quali le parrocchie avvertono di essere in debito di ascolto. Gli stessi genitori talvolta vivono con ansia, se non con senso di colpa, la presa di distanza dei loro figli dalla vita di fede e comunque dalla Chiesa, nonostante la testimonianza che hanno cercato di dare loro.

Il senso di inadeguatezza e talvolta di impotenza verso i giovani sembra acuirsi sempre di più anche tra coloro che sono impegnati sul fronte della formazione: gli stessi insegnanti ci hanno descritto i giovani come soli e impauriti nei confronti del futuro, costretti dal mondo degli adulti verso prospettive legate soprattutto al successo sociale e al benessere economico. Da qui il loro appello affinché i luoghi e le iniziative delle parrocchie promuovano sempre di più un ascolto attento e paziente dei giovani e dei loro vissuti, non attendendoli ma andando loro incontro.

Le parrocchie dal canto loro si sono interrogate su cosa fare e prima ancora su come convertire gli atteggiamenti di fondo. È emersa la consapevolezza che un ascolto significativo ha bisogno di una preparazione a più livelli: 1) chiede prioritariamente l’ascolto della Parola di Dio per entrare in un rapporto profondo con la storia dell’altro; 2) chiede tempo per far risuonare dentro di noi quello che l’altro dona con la sua comunicazione; 3) chiede di capire come anche le nuove tecnologie possano raggiungere le persone che altrimenti rimarrebbero estranee al camminare insieme; 4)  chiede di essere presenti  in luoghi fisici dove le persone possano trovare qualcuno con cui comunicare.

Due acquisizioni meritano infine di essere qui sottolineate. La prima: l’idea di una Chiesa in uscita non chiede un insieme di eventi straordinari, quanto piuttosto l’impegno di incontrare gli altri nella quotidianità rendendoci riconoscibili come cristiani. La seconda: l’uscita è difficile da realizzare se non sentiamo che “ci arde il cuore”, perché possiamo cercare gli altri solo se ci riconosciamo come persone che sono state trovate, come persone che possono cercare perché sono state attratte e possono diventare attraenti.

  • Corresponsabili nella missione

I temi della partecipazione e della corresponsabilità sono stati discussi sia dagli organismi pastorali diocesani, sia dalle unità pastorali e parrocchie. Queste, da istituzioni fortemente rappresentative sul territorio, stanno diventando sempre più agenzie di servizi, certamente apprezzate e anche benemerite (si pensi agli oratori), ma dall’incidenza modesta nell’ambito della formazione e della mentalità. Gli stessi gruppi laicali che alle parrocchie fanno riferimento faticano talvolta ad uscire dall’isolamento e da una certa autosufficienza.  Non è dato conoscere l’effettivo lavoro dei Consigli pastorali parrocchiali e delle unità pastorali (cadenza delle riunioni, partecipazione, tematiche discusse e conclusioni prese), ma questa volta la preparazione del Sinodo ha permesso la lettura dei verbali. Alcuni parlano di adeguati spazi di dialogo e di confronto, dove è possibile esprimersi con franchezza, dove viene riconosciuta l’importanza dei laici nella condivisone delle scelte e non si hanno problemi a comunicare con franchezza e verità. Altri, tuttavia, evidenziano l’eccessivo dirigismo dei parroci e le difficoltà nel rapportarsi con i cambiamenti in atto nel proprio territorio. E a tale proposito qualcuno osserva che quanto si discute nel Consiglio parrocchiale finisce con l’essere utile soltanto al mantenimento della struttura, ma non interessa fuori dalla Chiesa perché la vita delle persone è altrove. Emerge l’esigenza di una collaborazione più diretta con il Consiglio pastorale diocesano e viceversa, come pure la necessità che il Consiglio parrocchiale comunichi all’esterno quanto discusso e deciso, utilizzando sia i canali tradizionali che la rete.

Pare di capire che i Consigli pastorali parrocchiali, se vogliono fare esperienza di sinodalità più autentica, devono superare la fase dello spontaneismo e dotarsi degli strumenti adeguati perché la partecipazione sia convinta, qualificata ed efficace nei risultati. I fedeli apprezzano quando vengono convocati e responsabilizzati, purché, la loro, non finisca come una mera presenza notarile. Tutte le cose da fare si imparano facendo e facendole bene: anche la partecipazione laicale, che è compito dei parroci suscitare e formare. Non è buon segno – qualcuno ha affermato – quando ci si sente dire che “siamo sempre gli stessi” e da qui si conclude con atteggiamenti di remissione anziché di missione.

Partecipazione e corresponsabilità sono strade già sperimentate a livello diocesano (assemblee annuali, consigli, uffici pastorali) ed hanno dato senz’altro frutti, soprattutto nella responsabilizzazione del laicato, che in molti servizi ha sostituito il clero (alle prese con una forte diminuzione) e si è reso disponibile per una formazione più specifica, come richiesto dai diversi sevizi pastorali (famiglia, Caritas, scuola, cultura, attività giovanili…). Rispetto ad alcuni anni fa, tuttavia, si è notato un calo di partecipazione, come se a frequentare fossero soprattutto quanti hanno già ruoli di responsabilità nella diocesi e nelle parrocchie. Talvolta sono le stesse parrocchie che non riescono a dare il giusto primato alla sinodalità ecclesiale attorno al vescovo. Anche la Consulta delle aggregazioni laicali rileva situazioni analoghe nel comportamento dei gruppi e dei movimenti. Alcune voci segnalano qua e là un senso di appiattimento e di stanchezza, dove l’autoreferenzialità dei gruppi e delle iniziative messe in campo dai diversi settori della pastorale non sempre favoriscono l’apertura e la partecipazione. Come dire: le attività sono molte, ma non sempre arrivano ad essere condivise e dunque rilevanti. Qualche anno fa si sarebbe detto: “iniziative, prive di iniziativa”.

Si è cercato di verificare come avvengano i processi del discernere e del decidere. In Diocesi l’esperienza del CP è stata valutata molto educativa e significativa in tal senso: il discernimento ha avuto il suo tempo di ascolto e di confronto, la decisione è stata conseguente alle convergenze. Le assemblee diocesane annuali, dalla preparazione degli argomenti messi in programma alla individuazione degli orientamenti prioritari emersi, sono state da questo punto di vista emblematiche, anche se poi le traduzioni pastorali sono restate al di sotto delle attese suscitate. Nelle parrocchie, invece, una vera e propria formazione al discernimento non è altrettanto evidente. Discernere e decidere – qualcuno ha scritto – richiedono la sosta e l’ascolto, due modalità alle quali siamo sostanzialmente poco abituati. Spesso i nostri momenti di incontro sono caratterizzati da decisioni già prese e dal bisogno di comunicarle perché vadano a buon fine, con conseguente scarsa attenzione al confronto dei punti di vista, poca propensione a leggere i segni dei tempi e una comprensione del territorio spesso superficiale

Sebbene si riconosca che lo stile dovrebbe essere quello familiare – confronto, condivisione, assunzione delle responsabilità nelle decisioni da prendere –, il coinvolgimento riguarda generalmente solo i membri degli organismi partecipativi. La comunità parrocchiale è coinvolta solo marginalmente e raramente nelle decisioni. E siccome non possono considerarsi condivisione i fogli riepilogativi, gli annunci domenicali o modalità simili, c’è chi suggerisce delle assemblee parrocchiali, anche annuali, per la condivisione delle scelte pastorali e la verifica dei cammini attuati.

Più a fondo resta però la domanda su come formarsi alla sinodalità. Viene riconosciuto il ruolo fondamentale della formazione dei presbiteri, dei catechisti e di chiunque rivesta ruoli di responsabilità. È importante l’aggiornamento teologico e pastorale, ma anche la comprensione di ciò che di nuovo avviene nella vita sociale e culturale. Altrimenti non si cammina insieme e neppure si esce dai propri recinti, perché si rimane poveri di discernimento e incerti negli orientamenti. Si ha l’impressione che soprattutto su temi etici, che chiamano in causa il vissuto delle persone e su quelli politici, che toccano concezioni e interessi differenziati, la Chiesa resti incerta per una sorta di timore di possibili divisioni al suo interno; quando invece sarebbe una gran prova di maturità sinodale avere luoghi e tempi per un confronto condiviso tra i fedeli laici e i loro gruppi, senza anatemi e senza rivendicazioni di verità tendenti a piegare il Vangelo e il magistero ecclesiale dalla propria parte. In tempi in cui i tentativi di utilizzazione politica del cristianesimo per scopi identitari finiscono col mancare di rispetto al primato dello spirituale e all’autonomia del temporale, siffatti confronti aiuterebbero a valorizzare entrambe le dimensioni e a rimotivare l’impegno dei credenti che, dicono i nostri interlocutori esterni, è meno visibile di un tempo.

Sulla capacità e la volontà di dialogo tra le diversità serpeggiano comunque delle constatazioni forse un po’ amare, ma che non possono passare sotto silenzio. Qualcuno parla di gelosia e di rivalità tra associazioni e cammini interni alla Chiesa o di scarsa disponibilità a collaborare insieme su alcuni piani; e questo perché alcune differenze non sono semplicemente pastorali, ma affondano le radici in modi diversi di intendere la vita cristiana ed ecclesiale che possono creare rigidità e separatezze. Altri, pur non precisando meglio, dicono che è difficile dialogare all’interno della Chiesa, anche se si hanno piani pastorali improntati alla sinodalità. Non manca neppure chi ritiene al momento quasi impossibile dialogare alla pari con la società, che risulterebbe grande assente dai piani pastorali parrocchiali e solo sfiorata da quelli diocesani, dal momento che non si è più formati, nei gruppi ecclesiali, ad ascoltare la vita sociale e ad impegnarsi in essa. Starebbe anche qui l’origine della difficoltà della Chiesa a dialogare con chi sta “fuori”.

Il confronto tra le diversità ha richiamato il dialogo con le altre confessioni religiose, delle quali si ha una conoscenza piuttosto elementare. Si sa che ci sono, ma non esistono reali rapporti di confronto spirituale o collaborazioni su eventuali attività. In alcuni incontri diocesani si prega con i rappresentanti delle chiese ortodosse e si realizza qualche appuntamento ecumenico. Il contatto più frequente è quello informale con le famiglie presenti in parrocchia, le badanti, l’oratorio e il catechismo e qualche matrimonio misto. I momenti proposti a livello diocesano durante la settimana per l’unità dei cristiani e la preghiera ecumenica mensile sembrano avere un seguito in genere modesto. Non sono comunque mancate in passato iniziative culturali, prese dalla Caritas o da altri soggetti ecclesiali, che hanno cercato di capire il complesso mondo islamico e i suoi rapporti con l’occidente, la presenza dei profughi, le religioni e la multiculturalità. In diocesi il dialogo con la Chiesa ortodossa è avviato. Ecumenismo non è rifare una sola comunità dalle molte, ma creare un tessuto collaborativo che superi le barriere che hanno diviso l’Europa cristiana. In diocesi – qualcuno propone – si potrebbero creare spazi e momenti per leggere pagine del Vangelo insieme agli altri fratelli cristiani e magari anche una Caritas condivisa a livello ecumenico. Nello “spirito di Assisi”, l’impegno per la pace tra i popoli, figli dello stesso Padre, dovrebbe animare l’incontro con le altre religioni presenti nel territorio. Ma qui si hanno più difficoltà.

Si è poi riflettuto sui vari soggetti impegnati nella pastorale e sul rapporto autorità e partecipazione. C’è la necessità di un ricambio generazionale a cominciare dagli organismi di partecipazione della Diocesi, dove, diversamente dal passato, la presenza più giovane è fin troppo esigua. Si segnalano, da un lato, la difficoltà di alcuni sacerdoti a condividere il proprio ruolo dando fiducia ai laici, dall’altro, una certa pigrizia dei laici a farsi testimoni della propria fede a cominciare dalla propria famiglia per arrivare agli ambienti dove si svolge la loro vita. Da una parte si desidera avere più deleghe da parte dei parroci, dall’altra si constata una formazione non sempre sufficiente del laicato, soprattutto se chiamato ad andare oltre il sagrato. Da tale confronto emerge anche cosa i fedeli laici si attendono dai sacerdoti. In sintesi: essere più collaborativi tra di loro, più fedeli agli organismi di comunione, più aperti al contributo dei laici – che devono comunque formare -, più convinti nel dare compiti di responsabilità alle donne. Per il resto, è evidente l’apprezzamento per la fatica pastorale portata avanti con generosità dai nostri   sacerdoti, che sono sempre di meno e sempre più in là con gli anni. La loro diminuzione viene spesso richiamata con preoccupazione, perché ciò significa la fine di una epoca nella storia della Chiesa italiana, la quale dovrà ora contare molto di più sugli ordini religiosi e sui sacerdoti stranieri in convenzione con la Diocesi affidando loro i ministeri parrocchiali.

Circa la corresponsabilità del popolo di Dio nella missione, questa viene considerata principalmente in una prospettiva intra ecclesiale. In alcuni è vissuta come un mettersi a disposizione del parroco per le varie necessità, in altri resta una cosa privata pur se vissuta all’interno di gruppi o movimenti. Qualcuno fa osservare che la presenza dei soliti “che fanno tutto” potrebbe inibire la disponibilità di altri a donarsi alla comunità. Si nota comunque l’esigenza di elevare sempre lo sguardo verso l’impostazione ecclesiologica del Concilio Vaticano II sul popolo di Dio, sulla vocazione dei laici e il loro ruolo nell’azione pastorale e nella testimonianza. Quando però si va nello specifico della missione dei laici, l’ascolto esterno effettuato – per quanto ristretto e informale – ci restituisce la rappresentazione di un laicato cattolico poco visibile ed incisivo nei luoghi della cultura, del lavoro, della politica, della scuola, se si esclude il volontariato della Caritas e l’impegno dei docenti di religione. Sempre dall’esterno sono riconosciuti e apprezzati, anche per il loro spirito di collaborazione con altre agenzie, il progetto Cittadini del Mondo (che promuove il dialogo con il mondo della scuola, coinvolgendo gli studenti su tematiche della cittadinanza attiva), l’Istituto San Carlo e Protemus (con la loro rete di attività artistiche, culturali e formative per i giovani), gli oratori per i ragazzi (che sono anche luogo di dialogo coni genitori e con le famiglie che professano altre religioni).

Si tratta allora di accennare al dialogo della comunità cristiana con la città e del suo impegno in essa.

Alla Chiesa si continuano a chiedere molteplici servizi: l’accettazione dei ragazzi, l’aiuto agli anziani nei loro bisogni soprattutto immateriali, gli spazi di accoglienza nelle sue molteplici strutture, il sostegno per affrontare le tante emergenze sempre più complesse. In un tempo di ridimensionamento dello stato sociale e di volatilità delle tradizionali forze organizzate sul territorio, pare che la Chiesa locale sia oggi investita sempre di più da attese che ne sollecitano una funzione crescente di integrazione sociale. La diocesi, infatti, possiede da lunga data strutture e servizi – dalle opere caritative e sociali ai mezzi di comunicazione, dalle istituzioni culturali ai luoghi di accoglienza organizzata – in forza dei quali organismi e gruppi ecclesiali possono prendere posizione e aprire dibattiti, predisporre servizi in forme di volontariato. Se tale vitalità sociale della Chiesa locale – che sembra avere oggi nella Caritas il punto più dinamico – non è sempre percepita come tale dalla cittadinanza e magari non del tutto condivisa dagli stessi fedeli laici impegnati nelle parrocchie e nei gruppi, resta però il fatto che diventa sempre più urgente una coraggiosa opera di discernimento all’interno della comunità cristiana per comprendere quando e in che modo rispondere alla pressante richiesta della presenza della voce della Chiesa.

A tal fine c’è chi pensa alla Consulta delle aggregazioni laicali come luogo adatto non solo per il dialogo intraecclesiale, ma anche per il confronto con la società civile su problematiche importanti e cogenti. Questo aiuterebbe i fedeli laici e i loro gruppi a guardare i temi sociali con lo sguardo della fede e l’intelligenza paziente della mediazione politica. Altri aggiungono che, partendo da ciò che ci unisce piuttosto che da ciò che ci divide, è possibile promuovere alleanze che portano arricchimento all’una e all’altra parte, sia per quanto la Chiesa può dare al mondo, sia per quanto il mondo può dare alla Chiesa.

Altro discernimento sembrerebbe importante sul problema – segnalato da più parti – della latitanza dei cattolici dall’impegno politico, che finirebbe con il porli in condizioni di irrilevanza, anche laddove nei momenti elettorali alcuni gruppi scelgano, in quanto tali, di sostenere forze e personaggi schierati sui cosiddetti valori cristiani. Oltre l’auspicio di un siffatto discernimento, non emergono però al momento suggerimenti di metodo o convinta disponibilità a trovare strade per un confronto.

  • Missionari verso nuove frontiere: Vangelo, famiglia, giovani

L’evangelizzazione, la famiglia e i giovani sono i tre ambiti che il cammino sinodale ha rimarcato come prioritari nella missione della Chiesa diocesana nei prossimi anni, in linea con le consegne del Vescovo Domenico. E su questi ambiti non sono mancate analisi e proposte.

In alcuni eventi dell’anno – fanno notare i sacerdoti – la tradizione cristiana suscita ancora molta partecipazione; riemerge così un senso religioso dove a prevalere è il fattore devozionale e magari sacramentale, ma non l’esigenza di una formazione e di una appartenenza ecclesiale con relativi impegni. Tant’è che la prima esigenza è come aiutare i fedeli più disponibili a vivere il senso di una fede ecclesiale (e non più come un affare privato) e l’idea di una Chiesa sinodale (e non più come un affare del clero).

Unanime appare la convinzione che il tempo della pandemia, a causa della sua complessità, ha suscitato il desiderio di tornare alla fonte della nostra fede, di tornare all’incontro con la Parola Dio, ma – allo stesso tempo – ha fatto emergere la grande difficoltà a vivere l’unitarietà tra Parola ascoltata e Parola incarnata e vissuta. Un ritorno al Vangelo, spesso vissuto in forma virtuale – attraverso l’ampia offerta dei social – e in una dimensione soggettiva, può correre il rischio di una privatizzazione che marginalizza o, addirittura, rende insignificante la dimensione comunitaria dell’ascolto della Parola proclamata nella celebrazione.

È quindi evidente quanto sia necessaria una formazione sulla Parola, affinché questa non venga utilizzata per sostenere tradizioni, quanto piuttosto per creare relazioni nelle quali l’annuncio della buona notizia offra il senso della realtà vissuta e aiuti a farsi prossimi verso le situazioni di povertà e fragilità. La Parola condivisa nella comunità favorisce il discernimento che permette di vedere la volontà di Dio piuttosto che quella dell’uomo.

A proposito delle forme di evangelizzazione, si auspica di riprendere e vivificare, magari con nuove modalità, alcune esperienze del passato recente (centri di ascolto, lectio divina, catechesi occasionali) al fine di sostenere i credenti in ricerca di una fede più matura.

A fronte di una situazione esistenziale, familiare e sociale che sembra essere caratterizzata da grande sofferenza e disagio, emerge forte il richiamo a porre al centro dell’azione pastorale la famiglia e i giovani. Realtà rispetto alle quali la nostra Diocesi si trova non tanto in debito di attenzione – significativo è stato negli anni l’impegno sia della pastorale familiare che giovanile –, quanto piuttosto nella necessità di interrogarsi su quali siano le esperienze più promettenti e quali le nuove strade da esplorare.

Per la famiglia, in particolare, è stata evidenziata l’importanza di piccole comunità “in uscita”, dove si vivano segni di comunione fraterna che testimonino la presenza dello Spirito Santo e attraggano i più lontani. Si tratta di coltivare le piccole Chiese domestiche, dove la fede testimoniata possa raggiungere anche gli ambienti più distanti e lontani dalla parrocchia. Chiese domestiche nelle quali si celebra la Parola nella familiarità aperta a tutti: al bambino e all’anziano, al separato e alla coppia di sposi o di fatto. Allo stesso tempo è stata sottolineata la necessità di non ridurre tutto alla questione di “meno Chiesa e più casa”, quanto piuttosto di pensare una Chiesa domestica che tenga vivo il collegamento con la Chiesa come comunità che si ritrova attorno all’Eucarestia domenicale.

Sempre sulla evangelizzazione, alcune realtà parrocchiali segnalano le opportunità offerte dagli oratori e dalla catechesi per l’iniziazione cristiana per far incontrare i figli con i genitori, rimotivando questi ultimi alla funzione educativa della famiglia e al coinvolgimento attivo nell’educazione alla fede.

Il tema degli oratori e della formazione religiosa dei ragazzi e dei giovani ha aperto un confronto sulla pastorale giovanile in diocesi, a proposito della quale però solo alcune parrocchie hanno dato indicazioni sia nell’analisi che nelle proposte. A differenza degli anni passati, il protagonismo giovanile è poco evidente a livello ecclesiale. Da qui la domanda: è la comunità cristiana che non sa intercettarlo, ascoltarlo e promuoverlo, o il mondo dei ragazzi va chiudendosi in una dimensione individuale caratterizzata da relazioni quasi esclusivamente virtuali? Analoghe preoccupazioni sono espresse anche dagli altri luoghi dove avviene la loro formazione e socializzazione. Dall’ascolto degli insegnanti e dei giovani di Protemus, per esempio, emerge che i ragazzi si sentono soli e impauriti nei confronti del futuro e che, probabilmente, la pandemia ha aggravato le loro incertezze e i loro disagi.

Dalla lettura delle risposte delle parrocchie si sa che in genere il cammino formativo dei ragazzi fino alla Cresima è ancora richiesto dalle famiglie e partecipato dai ragazzi; dopodiché il dopocresima riesce laddove ci sono educatori e proposte stimolanti. I giovani si ritrovano ancora nelle parrocchie – talvolta nel contesto di gruppi e movimenti, come neocatecumenali, scout e Azione Cattolica… -, verso i quali il Servizio di pastorale giovanile durate l’anno si rivolge con proposte di attività e di incontro diocesani. Si tratta di iniziative che riscuotono adesioni a volte molto significative, a volte meno.

Al momento, più che parlare dei risultati, da chi opera nel mondo giovanile vengono fornite alcune indicazioni condivise: 1) è richiesta da parte della Chiesa locale una progettazione il più possibile unitaria su come accompagnare i giovani e formare gli educatori; 2) si propone di far fare ai giovani esperienze di servizio e di presenza sociale, perché possano sviluppare uno sguardo attento alla realtà; 3) si auspica che sacerdoti e educatori sappiano stare con i giovani nei luoghi dei giovani, anche sui social, sui gruppi (WhatsApp e altri), usando i loro mezzi di comunicazione, piuttosto che attendere che vengano nelle chiese.

C’è chi insiste particolarmente sulla necessità di camminare con i giovani facendo anche proposte “alte”, con momenti da vivere in piccoli gruppi per favorire percorsi di discernimento dei ragazzi sulle loro scelte e con una prospettiva vocazionale ampia. Per arrivare a questo è indispensabile anche la collaborazione di adulti che siano testimoni capaci di “lasciare il segno”.

Infine, l’attenzione è ritornata sugli oratori per i ragazzi – esperienza diffusa in quasi tutte le parrocchie – e sull’attività giovanile di Protemus: iniziativa diocesana aperta alla città e con largo seguito, stante il suo intento formativo, culturale e artistico. A proposito di quest’ultimo, c’è chi scrive che si tratta di un centro aggregativo in cui i giovani non soltanto trovano una loro dimensione in cui potersi esprimere e valorizzare talenti e doni, ma per alcuni è diventato anche un’opportunità di discernimento lavorativo. Protemus e il San Carlo – che lo ospita e insieme promuove altre iniziative per i giovani e gli adulti – sono percepiti anche dall’esterno come spazi di aggregazione fondamentali e, soprattutto, come luoghi che permettono ai giovani e ai meno giovani di vivere esperienze ritenute significative per la vita personale e la socializzazione.

Giudizio altrettanto positivo viene condiviso nei riguardi degli oratori, posti ormai al centro dell’interesse di parrocchie, famiglie e istituzioni cittadine. Vengono descritti come luoghi di accoglienza e di crescita per tutti, all’insegna della gratuità e del servizio tra le generazioni. Sono anche un segno importante della fiducia delle famiglie verso la disponibilità della Chiesa a stare dalla parte dei ragazzi, in un tempo in cui formare le nuove generazioni diventa più difficile e la latitanza educativa appare una tentazione sempre più facile. Oltre al prezioso servizio durante l’estate, nel corso dell’intero anno la Chiesa deve puntare a fare incontrare, nell’oratorio, le esigenze dell’educazione con le proposte della fede. Quindi l’oratorio è chiamato a diventare il centro aggregativo dove la Chiesa esercita la sua missione formativa rivolta ai ragazzi e ai giovani, ma anche agli adulti che devono ritornare protagonisti delle proprie responsabilità educative.

PROSSIMI PASSI

Alla conclusione viene chiesto di indicare i passi da compiere in risposta alla domanda fondamentale che lo Spirito ha suscitato alla Chiesa diocesana. Domanda che può essere così formulata: Cosa ci si aspetta dalla Chiesa di oggi? La risposta non è univoca: abbiamo ascoltato chi la vorrebbe più vicina ai disagi dell’esistenza, chi più capace di mettere a disposizione strutture e servizi di volontariato per supplire alle deficienze dello stato sociale; chi la vorrebbe più presente e incisiva in alcuni ambiti, chi, al contrario, più discreta in altri. Ugualmente diverse sono le attese nei confronti del sacerdote: taluni lo apprezzano di più come operatore sociale, altri gli chiedono di essere maestro nel cammino della fede di una comunità.

Forse la domanda, per i credenti, sta più a fondo: Come la Chiesa deve oggi presentare Cristo? La doppia fedeltà della Chiesa al Vangelo e al proprio tempo la interroga su come aiutare oggi le persone a comprendere, nella libertà, la Verità che salva. Il Vangelo non cambia, cambia invece rapidamente il tempo e si fa più urgente comprendere meglio l’uno e l’altro. La nostra epoca è una sorta di secolarizzazione compiuta, dove la religione – molti lo hanno ricordato – se non è esclusa, è almeno sospesa nei principali ambiti della vita privata e sociale. Da una parte, dunque, l’uomo secolare sempre più critico verso la religione e sospettoso verso la Chiesa, dall’altra la Chiesa, mandata ad annunciare in modo credibile e amorevole il Dio di Gesù Cristo.

La nuova evangelizzazione porterà frutti se saprà parlare all’uomo di oggi – è stato detto – con lo stile dell’ascolto e del dialogo. Il linguaggio del Vangelo e quello post-moderno sembrano divergenti, eppure il primo deve tradursi, comunicarsi e rendersi più comprensibile al secondo. La Chiesa che cerca un nuovo inserimento nella società secolarizzata lo fa senza nostalgie o separatezze, senza lo stile intransigente e autoritario, ma proponendo i suoi valori e annunciando la verità del Vangelo come un dono di salvezza offerto alla libertà di chi vorrà accoglierlo. Lo fa “agendo secondo verità nella carità” e dunque rispettando la libertà dell’adesione di fede e la gradualità del cammino.

L’ascolto dell’uomo del nostro tempo ci lascia soprattutto due consegne: la riscoperta di Dio come “amante della vita”; l’accoglienza umana verso tutti che Gesù ha praticato, rivelando così il volto misericordioso del Padre. Le consegne sono state colte dalla Chiesa locale, adesso andranno accolte e tradotte in percorsi fattibili e significativi per la vita nostra e delle comunità.

Per ora, alla domanda cosa il cammino sinodale ha fatto riscoprire alla Chiesa che è in Foligno, il dossier raccolto potrebbe rispondere cosi: Abbiamo capito che la Chiesa insegna con la consapevolezza che la verità le giunge dall’ascolto di quanto lo Spirito suggerisce. Dio può parlare alla Chiesa anche attraverso coloro che non si ritrovano in essa. Pur sapendosi istruita da Dio, la Chiesa non si sente esonerata dall’ascolto dell’uomo, di colui che è stato dichiarato “la via” della Chiesa. Dio ha costituito la Chiesa per la salvezza dell’uomo che resta sempre il grande amore di Dio.