Assemblea diocesana – Meditazione durante la celebrazione dei Vespri

18-09-2020

Paolo e Barnaba, giunti ad Antiochia in Pisìdia, entrano nella sinagoga nel giorno di sabato e, sedutisi, ascoltano la lettura della Legge e dei Profeti. I capi della sinagoga li invitano a prendere la parola: “Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate” (At 13,15). Paolo, accolto prontamente l’invito a parlare, ripercorre la storia d’Israele fino a Giovanni Battista; il suo intervento, una sorta di genealogia di Gesù Cristo, è un vero e proprio annunzio pasquale che ha il suo “baricentro” in questa formula di fede: “Ma Dio lo ha risuscitato dai morti” (At 13,30). Questa formula, che sintetizza il kerygma pasquale, ripropone alla lettera quella suggerita da Pietro nel discorso tenuto nel tempio di Gerusalemme (cf. At 3,15) e in quello pronunciato nella casa di Cornelio (cf. At 10,40). La storia si regge sul Ma di Dio, che è completamente diverso da quello dell’uomo. Il ma dell’uomo spesso è seguito dal però, creando un cortocircuito sintattico. Il ma dell’uomo sovente è preceduto da un sì che ha la stessa accezione del no. Al contrario, il Ma di Dio non ha né premesse, né postille: è il Ma della luce che dissipa le tenebre; è il Ma della vita che vince la morte; è il Ma della grazia che sovrabbonda là dove abbonda il peccato (cf. Rm 5,20).
Consegnandosi volontariamente “alla morte e a una morte di croce” (cf. Fil 2,8), Cristo ne ha spezzato i vincoli, ha messo confusione nel regno dei morti, ha imposto alle sue fauci un limite invalicabile. Con il suo Ma Dio ha modificato l’orientamento profondo della storia, “sbilanciandola una volta per tutte dalla parte del bene, infrangendo il potere misterioso del male”. Il Ma di Dio è, per così dire, l’eco dell’Amen dell’Agnello immolato, della sua obbedienza, che ha riaperto all’umanità la strada dell’Esodo. È proprio di Dio aprire, mentre è tipico dell’uomo chiudere! Non c’è patologia più grave del rinchiudersi in se stessi!
Nelle circostanze attuali, segnate dall’emergenza e dalla provvisorietà, il rischio di chiudersi incombe anche sulla vita pastorale. La comunità cristiana non può limitarsi a rimanere in attesa di vedere se le persone torneranno a Messa o al catechismo, se si adatteranno a strumenti e modalità nuove di comunicazione, ma deve chiedersi come fare di questa fase un’esperienza missionaria, a partire da ciò che si è vissuto e sofferto. C’è bisogno di una Chiesa che cammina e che progetta, che non rinuncia all’unità di misura della storia della salvezza che è l’oggi della fede. C’è bisogno di una Chiesa che impara a leggere i “segni dei tempi” e a riconoscere i “semi del Verbo”. C’è bisogno di una Chiesa che coltiva l’essenziale, servendo le coscienze (fare formazione), servendo i legami (fare comunità), servendo il territorio (fare alleanze). C’è bisogno di una Chiesa che, esplorando un modo di essere comunità che non virtualizzi le relazioni, educa a frequentare lo spazio digitale, scoprendone le risorse senza ignorarne i limiti. C’è bisogno di una Chiesa consapevole che la condizione di piccolo gregge non diminuisce ma accresce la sua vocazione missionaria.

+ Gualtiero Sigismondi