Assemblea diocesana, relazione dell’Amministratore Apostolico S. E. Mons. Gualtiero Sigismondi

Che cosa si aspetta il Signore da questa Assemblea diocesana sui generis? Che la nostra Chiesa particolare si disponga ad esplorare la frontiera della conversione missionaria della pastorale, sapendo scorgere, in un tempo segnato da dure prove e stimolanti avventure, la novità del mandorlo in fiore (Ger 1,11). Ma il diavolo cosa si aspetta da questa assemblea? È il card. Carlo Maria Martini a porre questa domanda in una riunione preparatoria al secondo Convegno ecclesiale nazionale, tenutosi a Loreto nel 1984. “Penso che il diavolo si aspetti che si parli un po’ di tutto, che si dia ragione a tutti, che ciascuno esponga la sua idea e il suo pensiero come quello che solo può salvare la Chiesa e la società, che si faccia un grande forum di dibattiti, senza approfondire l’intelligenza delle cose. Il diavolo tiene a una seconda cosa: che non ci si interroghi mai perché ci sono tante prediche inutili!”.
Senza “dare occasione al maligno”, provo a rispondere ad alcune delle domande formulate dalle quattro aree pastorali in cui è articolata la Curia diocesana, facendo una breve premessa, quasi una confidenza. Forte è la tentazione, anche nella nostra Diocesi, di indulgere verso una pastorale di conservazione, racchiusa in poche pratiche consolidate: “si è fatto sempre così”. La resistenza ad affrontare la fatica del cambiamento – solitamente dissimulata da questa affermazione: “chi vivrà vedrà” – è degna di biasimo come l’ingenuità di improvvisare, a tutti i costi, la retorica del nuovo. Sia l’una sia l’altra sono sintomi della rinuncia alla cura della vita interiore, a quell’opera di “manutenzione ordinaria”, cioè di formazione permanente, senza la quale è impossibile sostenere il processo di conversione missionaria della pastorale, già irreversibile prima della pandemia, legato alla riscoperta dell’essenziale e alla forma del “piccolo gregge”.
La portata del cambiamento in atto sollecita a discernere quali prassi pastorali mettere in secondo piano o persino tralasciare e quali porre in cima o privilegiare. “Dopo mesi di gesso – avverte Mario Antonelli – è una grazia se si sta in piedi; si può osare qualche passo, magari non disdegnando una stampella o una spalla amica. A nessuno viene in mente di correre. È possibile fare solo qualche passo, purché nella giusta direzione; un giorno correremo, chissà, anche meglio di prima. Osiamo dunque qualche passo, con pazienza, vale a dire con la passione dell’amore del Signore, patendo i tempi con il loro carico di difficoltà, sapendo attendere. La grazia mai è schizzinosa nei confronti della storia e dei suoi contrattempi”.
In questo tempo è cosa buona e giusta osare qualche passo. Può essere utile, al riguardo, meditare quanto si legge in una lettera, del 5 agosto 1938, in cui don Primo Mazzolari risponde al suo vescovo, mons. Giovanni Cazzani, che lo invita “a discendere un po’ al pratico e al concreto”. “Ho l’impressione – V. E. mi perdoni la franchezza – che tra noi si esageri il concetto di pratico fino a confonderlo col menar la mano a chi deve fare, sollevandolo dallo sforzo di disporre animo e facoltà personali di fronte al mutevole materiale da elaborare spiritualmente (…). Per me la pratica è fare l’animo dell’apostolo: e l’animo può essere suggerito e guidato da indirizzi e suggerimenti altrui e da proprie esperienze, ma non imprestato. Purtroppo, oggi, ha preso piede un concetto di pratica non spirituale, con danno immenso dell’iniziativa e spontaneità personale. Lo schema, la traccia, lo svolgimento, la strada già tracciata: ecco dove arriva la scuola, la rivista, il manuale. Tutte cose belle, perfette e scritte da grossi calibri (…), che raramente raggiungono il bersaglio (…). Chi sa di preciso dov’è religiosamente il nostro popolo? Da quali lontananze bisogna farlo ritornare? (…)”.
È con queste domande che è necessario confrontarsi, avendo ben chiaro che il problema non è essere poco numerosi, ma diventare insignificanti, come lascia intendere l’interrogativo con cui Gesù interpella la folla che lo “in-segue”: “Se anche il sale perde il sapore, con che cosa verrà salato?” (Lc 14,34). Per non diventare insipidi, non ci si può limitare a osservare quello che non funziona, ma è necessario coniugare il sogno e il realismo, avanzando proposte che abbiano le caratteristiche di un progetto condiviso. Per osare occorre immaginare, per immaginare è necessario sognare, per sognare si deve pensare, per pensare è indispensabile ascoltare, per ascoltare si deve fare silenzio, cioè nutrire un po’ di diffidenza nei confronti del proprio giudizio.
Come sviluppare l’attitudine a lavorare insieme? Quali sono i ritardi che lei ha visto nella seconda Visita pastorale e che ora ci chiede di colmare?

L’attitudine a lavorare insieme non riesce a prendere il largo; ne è prova evidente, ultima in ordine di tempo, la riorganizzazione della Curia in quattro aree; tale orientamento, condiviso dagli organismi diocesani di partecipazione, incontra venti contrari, che rallentano ma non possono mandare alla deriva il processo avviato. La strada della sinodalità non sopporta ulteriori lentezze: lo esige il dialogo pastorale con le associazioni e i movimenti, che sviluppano percorsi pastorali specifici, come quelli legati all’apostolato di ambiente, solo se non rinunciano ad avere nella parrocchia il loro “campo base”. La strada della sinodalità non tollera ritardi: lo richiede l’infrastruttura delle unità pastorali, le quali hanno la funzione non di “accatastare” le parrocchie di un territorio omogeneo, bensì di metterle “in rete”, avvalendosi degli organismi di partecipazione, che non costituiscono una sorta di tavolo sindacale o, al contrario, una cassa di risonanza di decisioni già assunte. Il loro funzionamento impone che, all’inizio dell’anno pastorale, si definisca il calendario delle riunioni, le quali non potranno essere ad nutum o ad libitum di chi le presiede, ma a beneficio dei processi decisionali che devono coinvolgere l’intera comunità.
A livello diocesano, poiché il diritto prevede, durante l’amministrazione apostolica, la cessazione delle funzioni dei Consigli presbiterale e pastorale, ho affidato al Collegio dei Consultori il particolare compito di coadiuvarmi nel governo della nostra Chiesa particolare, chiamata a scrivere una pagina inedita di vita pastorale. La Diocesi di Foligno non può “vivacchiare”, attendendo il ritorno alla “normalità”. Il futuro assetto della Regione Ecclesiastica Umbria passa da Foligno, la cui storia antichissima non le consente di sottrarsi a stare in prima linea nel processo di discernimento. Non si può perdere l’appuntamento con le sfide che il Signore dispone sul nostro cammino: a noi, oggi, è chiesto di scrivere un nuovo capitolo. Lasciarlo ai posteri vorrebbe dire rinviare ai tempi supplementari il risultato di una partita da giocare come protagonisti. Siamo in “zona Cesarini”, adesso. Papa Francesco lo ha lasciato chiaramente intendere più volte alla Conferenza Episcopale Italiana; Egli, nella sua sollecitudine per tutte le Chiese, ci invita a non far prevalere il nostro sentimento ma l’azione del santo Spirito.

Su quali priorità si dovranno orientare i percorsi catechetici? Con quali scelte pastorali è possibile recuperare la centralità della celebrazione eucaristica nel giorno del Signore?

Nelle circostanze attuali è necessario chiedersi: da dove ricominciare? Dal primato della formazione che, a livello diocesano, ha il suo baricentro nella Scuola interdiocesana di teologia, frequentata da troppi “ripetenti” e da poche “matricole”. In questa stagione ecclesiale è necessario che chi è più impegnato pastoralmente si decida a chiedere al proprio parroco un “anno sabbatico” da dedicare alla cura della vita interiore, cioè alla preghiera e allo studio, iscrivendosi alla Scuola diocesana di teologia. Essa non potrà rinunciare, senza indugio, a offrire un corso di formazione specifica sul valore e l’utilizzo delle tecnologie digitali, che hanno occupato prepotentemente la ribalta durante il lockdown, rischiando di diventare strumenti sostitutivi anziché integrativi. Sarebbe un’ingenuità pensare che la pastorale e la catechesi possano fare a meno di frequentare l’ambiente digitale, che si configura come una sorta di “cortile dei Gentili”. C’è bisogno di stare sulle “soglie della fede” e di riconoscere che i “semi del Verbo” sono sparsi ovunque: anche in terreni non arati ogni zolla è un vivaio per il seme della Parola. Questa serena fiducia vede in prima linea i ministri ordinati, chiamati a rendere più consapevole e condivisa l’adesione al Vangelo con la prassi della lectio divina, “scuola primaria” di preghiera, oltre che di fraternità presbiterale. Ritrovarsi insieme, attorno alla mensa della Parola, è una buona pratica sperimentata con frutto, ma troppo frettolosamente archiviata.
Le incognite di questo tempo esigono che si investa sulla formazione, riconsegnando alle comunità cristiane il “documento base” per eccellenza: il libro degli Atti degli Apostoli. Senza inserirsi nella trama narrativa degli Atti, di cui l’esortazione apostolica Evangelii gaudium è la nuovissima versione in lingua corrente, è impossibile sia riproporre la missione come esperienza nativa della Chiesa, sia ripensare percorsi possibili di catechesi e di maturazione della fede, che partano dal cuore del kerygma cristiano: “Il Signore è risorto”. L’itinerario catechetico integrale, kerygmatico e mistagogico, è quello dell’Anno liturgico, che ha come libro di testo il Messale Romano, la cui terza edizione italiana, fresca di stampa, costituisce un’occasione unica per riportare la liturgia al centro della formazione cristiana. Occorre interrogarci sulla qualità delle celebrazioni eucaristiche – non soltanto sulla percentuale dei fedeli che vi partecipano – e verificare se risponde o no al criterio della “nobile semplicità”. A tale riguardo è opportuno fare subito un serio discernimento non solo sul numero delle Messe, insostenibile, ma anche sulla loro distribuzione nelle diverse fasce orarie che, nei giorni feriali, non incontra le necessità di chi lavora, mentre nei giorni festivi le concentra alla stessa ora.

Come la famiglia accompagna la trasmissione della fede? Come educa a crescere in età, sapienza e grazia? Come continuare a scommettere sulle nuove generazioni?

Il rinnovamento della Chiesa dipende, essenzialmente, dalla disponibilità a “ricentrarsi” sulla vita fraterna, investendo sulla famiglia, che è un “luogo sociologico” e, insieme, un “luogo teologico”. Occorre superare, dunque, una visione riduttiva della famiglia, che la considera come mera destinataria dell’azione pastorale; difatti, “il servizio dei catechisti non sostituisce ma sostiene il mandato missionario degli sposi e dei genitori”. C’è bisogno, pertanto, non solo di coinvolgere i genitori nella catechesi, ma anche di assumere la vita di preghiera nelle famiglie, aiutandole a riappropriarsi di una “spiritualità domestica”. Il coinvolgimento dei genitori non si risolve invitandoli in parrocchia, a partecipare agli incontri di catechesi, ma entrando nelle loro case, poiché la trasmissione della fede, come documenta l’esperienza compiuta da Paolo a Corinto nella casa di Aquila e Priscilla (cf. At 18,1-11), trova nella domus Ecclesiae il suo habitat. Occorre, pertanto, attrezzare i catechisti a suonare il campanello delle case, senza passare oltre la porta d’ingresso di quelle abitazioni in cui i coniugi non abbiano in fronte il tau, a motivo delle loro situazioni dette “irregolari”. Sebbene la doverosa attenzione alla sanificazione degli ambienti, imposta dalle norme sanitarie vigenti, esponga al rischio di dimenticare la “t” di santificazione, tuttavia rappresenta un’occasione favorevole per formare piccoli gruppi che, entro le pareti domestiche, rendano possibile l’inclusione, offrendo l’opportunità di una conoscenza reciproca più profonda e fraterna. “La fede – osserva Papa Francesco – si trasmette nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma”.
“Se non ripartiamo dalla famiglia – avvertiva Benedetto XVI – il nostro impegno per la nuova evangelizzazione sarà sempre una rincorsa affannosa”. Quanto questo sia vero l’ho sottolineato con forza, più volte, aggiungendo che senza stabilire una vera e propria “alleanza” tra famiglia, scuola e oratorio l’impegno educativo in favore delle nuove generazioni è destinato a non portare frutto. Il grande investimento pastorale che coinvolge i fanciulli e sfiora gli adolescenti è votato a rimanere lettera morta se non si riscopre la “filiera” che, a partire dal grest e passando attraverso il campo-scuola, giunge a esplorare la frontiera della crescita “in sapienza, età e grazia”. Per tentare di arginare il distacco che si è consumato tra la Chiesa e i giovani, occorre aprire nuove vie al dialogo, frequentando l’ambiente digitale, che richiede contenuti sobri, ma soprattutto competenza nella cura delle relazioni, senza temerne contraddizioni e ingenuità, ma anche senza dimenticare che c’è “un’inclusione reciproca tra pastorale giovanile e vocazionale”. È questa dimenticanza che ha progressivamente indebolito la pastorale giovanile, troppo condizionata dal calendario dei “grandi eventi” piuttosto che da quello liturgico. Se è difficile immaginare come avvicinare i giovani è facile riconoscere che occorre abbandonare la pretesa di inseguirli e di blandirli. L’educazione religiosa delle nuove generazioni, progettata come un vaccino da inoculare prima possibile e una volta per sempre, deve essere pensata come un cammino progressivo da seguire delicatamente: “ogni anima ha la sua pienezza del tempo”. Siamo ancora troppo impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi.
Quali sono le parole-chiave della lettera pastorale dal titolo Segni di Vangelo? Come coniugare responsabilità civica e battesimale nel nostro territorio?

La Chiesa è un complesso ecosistema: “non è un’istituzione che si progetta ma una realtà vivente”. Di questo ho fatto esperienza durante la seconda Visita pastorale, che mi ha aiutato a cercare la presenza del Signore lungo le strade degli uomini, facendomi capire che la sfida più grande dell’evangelizzazione, oggi, è questa: intercettare in ogni dimensione umana un’attesa che la speranza cristiana è chiamata ad allargare. Cammin facendo, mi sono reso conto che “il problema non è la riforma delle istituzioni, le chiese vuote e la crisi delle vocazioni: il problema è la fede”. Questa acuta osservazione – confidata a Peter Seewald da Benedetto XVI nell’intervista pubblicata sotto il titolo Ultime conversazioni – sollecita un cambio di strategia più che di tattica: passare dall’irrigazione “a pioggia” delle iniziative di mantenimento a quella “a goccia” dei cammini di accompagnamento. Questo vero e proprio esodo pastorale non potrà compiersi fino a quando la presenza dei laici rimarrà sbilanciata sul piano della collaborazione piuttosto che su quello della corresponsabilità. Resta ancora riservata la prognosi del clericalismo a cui accennava Yves Congar durante la stagione conciliare. “Noi abbiamo, implicita e inconfessata, o addirittura inconscia, l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare. È un tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa, senza, ovviamente, attentare alla sua struttura gerarchica, e per riportare i chierici nella verità totale della loro posizione di membri-servi”.
La via della Chiesa non è quella dell’opposizione al mondo, tanto meno quella della neutralità, ma quella dell’incarnazione, che comporta la responsabilità di inserire la trama del Vangelo nell’ordito della storia. Quella dell’incarnazione è, pertanto, una logica che, mentre resiste alla tentazione di “immergere il temporale nello spirituale”, promuove la missione di “inserire lo spirituale nel temporale”. A tale riguardo è necessario riconoscere che “carità politica” e “carità pastorale” sono destinate a frequentarsi, poiché “l’attenzione alla città non è separabile dall’impegno ecclesiale”. Coniugare responsabilità civica e battesimale non è una scelta opzionale, ma obbligata, che impone di formare laici che operino dentro la comunità degli uomini da cristiani e cittadini. L’elaborazione di questa visione si ispira alla Gaudium et spes, che segue i paradigmi della Lettera a Diogneto, secondo cui i cristiani, godendo di una “cittadinanza paradossale”, “svolgono nel mondo la stessa funzione dell’anima nel corpo”. La Chiesa non è un agente politico, e tuttavia ha un interesse profondo per il bene della comunità civile. Opera in modo da non intromettersi in sfere che non le competono, ma non consente restrizioni alla propria libertà di annunciare il Vangelo apertamente. Su questo punto c’è una grande opera formativa da compiere, incentrata sui quattro pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa: libertà, uguaglianza, sussidiarietà, solidarietà. Sia la Biblioteca Iacobilli, sia l’Istituto San Carlo sono istituzioni diocesane che possono immaginare un iter di realizzazione di questo progetto, da indicare in tappe precise, con ben delineati obiettivi intermedi da raggiungere.

In questa stagione ecclesiale inedita siamo chiamati a orientare i nostri passi verso ciò che è essenziale; è utile, al riguardo, ascoltare una meditazione attribuita al Beato Oscar Arnulfo Romero, ma che venne tenuta per la prima volta dal Cardinale John Dearden, Arcivescovo di Detroit. “Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano. Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni. Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio. Niente di ciò che noi facciamo è completo (…). Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno. Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà. Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità. Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo (…). Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale. Siamo manovali, non capomastri (…)”.
Siamo manovali, non capomastri, e nemmeno carpentieri o muratori! Il manovale ha il compito di preparare i ferri e le tavole per la carpenteria, come pure la malta, il conglomerato di cemento, acqua e sabbia; la pala, la betoniera e la carriola sono gli strumenti principali del suo mestiere. Egli è il primo anello della catena di montaggio delle maestranze di un cantiere edile; sotto la guida del capomastro deve essere pronto a rispondere ad ogni suo cenno e a qualsiasi richiesta del carpentiere o del muratore. È lui che porta il materiale a destinazione con la forza delle sue mani o con l’ausilio del braccio di una gru. È il primo ad essere ripreso ed è l’ultimo ad essere ringraziato, ma non se ne cura, perché è abituato alle intemperie e a mangiare polvere. È allenato a servire: a mettersi in disparte senza farsi da parte.
Nel cantiere della Chiesa le riforme non si fanno con l’inchiostro dei decreti ma con il “cemento della concordia”. Tale malta si impasta in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento, tenendo in mano la parola di Dio!

+ Gualtiero Sigismondi

18-09-2020